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Come capita
con la marijuana, tutti hanno provato almeno una volta nella vita a
votare Emma Bonino. Peccato sia stata quasi sempre lei a fumarsi il
voto e a volarsene via, tanti saluti agli aventi diritto che le
hanno creduto.
A questo giro di agognata Europa la veterana di tutti gli psicotropi
politici in circolazione ha buttato dalla finestra 822mila voti
senza raggiungere il fatidico 4%. Dispetto che ha fatto volentieri
al Partito democratico visto che proprio il Partito democratico –
atleta di leggendario masochismo – l’aveva appena eletta al Senato,
4 marzo 2018, nel pieno dell’ultima emorragia renziana.
Ma se il
grande Enrico Mattei usava i “partiti come i taxi” e a fine corsa li
pagava, Emma Bonino sale a bordo di qualunque mezzo da una
quarantina d’anni e non paga mai.
Anzi è
accaduto e accade proprio il contrario, visto che dal remoto 1976 a
oggi, transitando sia a sinistra che a destra dello spettacolo
politico, da Prodi a Berlusconi, da Bersani a Renzi, dagli abortisti
al chierichetto Tabacci, sopra e sotto, dentro e fuori i confini
nazionali, a favore della pace nel mondo, ma anche bendisposta alla
gloriosa guerra umanitaria che brucia vivi solo i cattivi, Emma non
è mai rimasta senza un incarico, una poltrona, un pasto caldo, anche
al netto di tutti gli encomiabili digiuni intrapresi per le buone
battaglie combattute, le libertà della donna, ci mancherebbe.
E per quelle
meno buone, l’insofferenza ai sindacati, per esempio. Sempre
passando dal corpo, il soggetto politico per eccellenza dell’intera
avventura radicale. Che è specialmente la sua.
Non per caso
tutta la sua storia pubblica è cominciata nel modo più privato
immaginabile, un aborto. Che passò precisamente al centro del suo
corpo – “era il 1974, avevo 27 anni, mi sentivo colpevole come una
ladra” – compiendosi nell’esperienza “più sconvolgente della mia
vita”.
Una ustione
cauterizzata con la politica. Che da allora la aiuta a reagire alle
molte ingiustizie del mondo: “La mia indignazione, la rabbia, la
solitudine di quel momento sono diventate impegno”.
Icona femminista quant’altre mai, ha
avuto in sorte il dispetto di vivere dentro l’ombra del più
ingombrante dei maschi alfa, Marco Pannella, che lei chiamava “il
mio scimmione” a dirne la sudditanza zoologica per forza maggiore,
ma anche la propria consapevole supremazia femminile, in quanto
animale politico più astuto.
Capace di
suscitare maggiore benevolenza nel pubblico votante, grazie ai suoi
piccoli sorrisi e al suo corpo fragile. Compresa la volta in cui
annunciò in radio di avere il cancro, era il 2015, preparandosi a
combatterlo da “calva di transizione”. Circostanza drammatica per
tutti, salvo che per il suo mentore, insofferente alla maggior luce
della sua discepola: “Emma ha il cancro? Io ne ho due”. Svelandosi
narciso anche nella propria sofferenza.
Per tutta la vita Pannella l’ha celebrata e insieme strapazzata fino
all’insulto in pubblico, quando con cattiveria persino commovente,
provò ad annettersi tutti i successi politici di Emma, gridando che
i ministeri ottenuti, gli incarichi internazionali, i voti, i premi,
gli applausi “li ho costruiti io, non lei! Emma è stata oggetto
della nostra campagna di valorizzazione!”. Incassata, lasciava
intendere, senza mai un grazie: “Non la vediamo mai, non ci
consultiamo mai, non partecipa a una sola riunione di partito. Non
fa assolutamente vita di partito”.
Improperi narrati con le solite mille parole del padre padrone, a
cui Bonino rispose con l’indifferenza della figlia: “Ma sei scemo?
Io sono iscritta al partito a 2.500 euro al mese”.
In
quell’eloquio senza troppi fronzoli, Emma Bonino ci è nata, anno
1948, cascina agricola dalle parti di Bra, provincia di Cuneo, padre
contadino “che parlava solo in dialetto” e madre casalinga “che non
parlava mai”. Seconda di tre figli. Insofferente “al soffocante
caldo dell’estate” e al freddo dell’inverno, chilometri a piedi
nella neve per andare a scuola.
Poi il liceo
nell’aria cupa di provincia. E finalmente un treno per Milano,
Università di Lingue, lasciandosi dietro la brutta adolescenza. Per
aprirsi all’anno di grazia 1968, quando un po’ di cielo cadde sulla
terra e Emma incontrò la sua prima regina madre, Adele Faccio, già
veterana radicale, “che mi ha insegnato l’abc della politica”,
perfezionata sui tavoli dell’aborto clandestino finalmente portato
alla luce del sole, rivendicato come sofferente diritto di ogni
donna.
È su
quell’onda che nel 1976 arriva alla Camera, eletta con la prima
pattuglia radicale, reduci tutti dalla battaglia vinta del divorzio
che per la verità era farina del sacco di Loris Fortuna, socialista
pre-craxiano, e che Pannella si è intestato da allora, spingendolo a
gomitate fuori dall’inquadratura.
Da quei giorni gloriosi si è mossa in avanti e indietro la rissosa
comitiva radicale, tutti in gita permanente dentro al palcoscenico
delle Istituzioni, sul quale hanno issato la clamorosa innocenza di
Enzo Tortora e la discutibile avventura politica di Toni Negri. Il
dramma di Luca Coscioni e la farsa di Cicciolina. L’autentica
grandezza di Leonardo Sciascia e la molesta irrilevanza di Daniele
Capezzone.
Tutti imbarcati e masticati sul
pullman in corsa, di quelli doppi con ampia vista sui diritti
civili. Ma avvelenati da insonni battaglie intestine, più
psichiatriche che politiche, più sentimentali che ideologiche,
autoreferenziali, spesso incomprensibili (“siamo il partito
transnazionale, transpartito, liberale, libertario, liberista”)
combattute negli infiniti congressi dove hanno sfilato, insieme con
i giovani e lucenti segretari via via assunti e licenziati da
Pannella, i diritti dei Mapuche, dei Montagnard, dei Ceceni,
l’hashish libero, la pena di morte da abolire, le mutilazioni
genitali femminili, la buona morte per i malati e la cattiva vita
dei detenuti, la non violenza planetaria, ma anche le portaerei di
Bush nel Golfo, e i bombardieri italo-americani su Belgrado.
Fino alla
insuperabile trovata della battaglia “contro lo sterminio per fame”
ricevendone voti, encomi, universale ammirazione anche da quei
governi che i loro popoli li affamano per vocazione.
Persuasa di
interpretare al meglio il bene collettivo, e autorizzata dal suo
maestro a considerarsi autonoma con i voti e i soldi degli altri,
Emma ha indossato l’intero guardaroba istituzionale.
È stata
ministro con Prodi e Letta, commissario europeo con Berlusconi,
vicepresidente del Senato con Napolitano al Quirinale.
Tre volte al
Parlamento europeo, otto volte in quello italiano coi radicali,
l’Ulivo, Forza Italia, fino alla lista onomastica, e sempre a
cavallo della sua volontà di ferro.
Vittoriosa con i primi referendum,
ne ha guidati altri cento, fino a renderli irrisori. Ha vinto la
battaglia contro il finanziamento pubblico dei partiti,
dimenticandosi del proprio, attraverso la celebrata Radio Radicale
che trasmette “contro il regime”, ma con i soldi del regime.
Dettaglio
irrilevante per una che si è fatta sparare in Somalia, arrestare in
Polonia e in Afghanistan, fermare in Sudan e in Ruanda. Anche se non
sembra dice di amare la solitudine.
Da personaggio pubblico, non ha mai
smesso di parlare del suo privato, considerandoli inseparabili. Ha
raccontato i suoi viaggi, i suoi anni di autoesilio al Cairo, le sue
paure, i suoi pianti notturni. I suoi amori, specialmente quello per
Roberto Cicciomessere, finito malamente: “Mi lasciò per una di 24
anni”.
Non è mai
stata né moglie, né madre. Condannandosi, a suo dire “a rimanere
figlia”.
Mai
liberandosi davvero dalle antiche ferite. Forse sarebbe l’ora di
essere meno avara con se stessa, occuparsi della sua piccola casa
con terrazza su Campo dei Fiori. Con un po’ di lentezza e la
meritata pensione.
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