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Punto di vista di
Gustavo Zagrebelsky su Renzi
definito semplicemente "eversivo"
Professor
Gustavo Zagrebelsky, l’ha sentito Renzi da Fabio Fazio?
Lei conosce la teoria generale dei
numeri nel diritto costituzionale e nella politica?
No,
veramente no. Ma c’entra qualcosa con Renzi che chiude la
porta in faccia ai 5Stelle e con lo stallo ormai definitivo
della politica italiana?
C’entra,
vedrà. Il numero 1 è quello del principato: uno regna, tutti
gli altri obbediscono. Il numero 2 è quello della
sovversione e della rissa: se le forze in campo sono solo
due e si affrontano come si usa nelle democrazie latine,
inclusa la nostra, senza la cultura politica del ‘modello
Westminster’ che spesso si invoca da noi, l’una tende a
sopraffare l’altra. In Italia, il 2 significa la totale
occupazione dello Stato, degli enti pubblici, della Rai,
della burocrazia, della sanità, della cultura… Si vive in
quello che Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, chiamava
stasis: che non è solo lo stallo, è la quiete apparente che
precede la tempesta, lo scontro finale dove uno solo dei due
resta in vita. Poi c’è il numero 3.
Che
è il caso dell’Italia tripolare nata nel 2013, quando in
Parlamento si affacciarono i 5Stelle.
Il 3 è il
numero perfetto anche per il pensiero costituzionale: la
cifra dell’equilibrio dinamico che garantisce tutti. Se in
Parlamento hai tre forze, due potrebbero accordarsi per
eliminare la terza, ma poi si piomberebbe nel numero 2: la
stasis e lo scontro. Invece conviene a tutti che esista
sempre una terza forza, a garanzia delle altre due, contro
l’esplodere del conflitto radicale.
Già, ma intanto non si riesce a formare un governo, si torna
a votare e, dopo, siamo punto e daccapo. Infatti Renzi ne
approfitta per incolpare gli elettori che bocciarono la sua
riforma costituzionale e diedero l’assist alla Consulta per
silurare anche il ballottaggio dell’Italicum, che la sera
delle elezioni ci avrebbe dato un vincitore e un governo
sicuro.
Ma non vorrà mica dargli retta, spero.
L’Italicum fu bocciato dalla Consulta perché al secondo
turno prevedeva un ballottaggio mai visto al mondo fra liste
nazionali (non fra singoli candidati in ogni collegio, come
in Francia) e assegnava la maggioranza parlamentare a chi
rappresentava un’esigua minoranza nel Paese, senza neppure
fissare una soglia minima di voti. I premi di maggioranza
sono, appunto, di maggioranza, non di minoranza: possono
aiutare chi si avvicina alla maggioranza ad averne una più
agevole, non a trasformare una piccola minoranza in
maggioranza. Il referendum non c’entra nulla: quello
riguardava una ‘riforma’ che, insieme a varie aberrazioni,
avrebbe voluto fare del Senato un docile strumento in mano
all’oligarchia regionale e comunale dei partiti.
Ma
come si fa a fare un governo se due su tre non si mettono
d’accordo?
Il Pd è la
terza forza, dopo il centrodestra e i 5Stelle. Dovrebbe
sfruttare questa posizione che lo rende indispensabile alle
due forze maggiori e scegliere di coalizzarsi con quella che
ritiene più vicina o meno distante: o i 5 Stelle, come io e
lei auspichiamo fin dal 4 marzo, oppure il centrodestra. Del
resto il Pd non ha avuto problemi, nel 2011 e nel 2013, a
fare due governi con Forza Italia e nel 2014, con Renzi, ad
accordarsi con pezzi di centrodestra. Renzi invece, anziché
far fruttare il 18,7% di voti ottenuto alle elezioni, non
vuole proprio giocare la partita: lavora per lo stallo, la
stasis. Fa addirittura capire di preferire un governo degli
altri due, che farebbe fuori il Pd. Questo significa
lavorare contro il suo partito, nell’illusione di farne un
altro. Sogna di diventare il Macron italiano. Vedremo se
mercoledì in Direzione il suo partito accetterà di
estinguersi senza fiatare o deciderà di sedersi a uno dei
due tavoli: il più conforme o il meno difforme dalla sua
vocazione, se riesce a darsene una.
Renzi
finora ha testardamente imposto, e confermato anche domenica
sera, l’Aventino. Di lì non si muove.
Mai dire mai,
in politica. Il suo aventinismo, dal punto di vista del
sistema proporzionale (peraltro voluto da lui col Rosatellum,
per diversi aspetti incostituzionale, ma non per l’impianto
proporzionale), è una testardaggine vagamente eversiva.
Perché sottrae la terza forza politica al gioco democratico.
Nei sistemi proporzionali, tutti sono chiamati a mettersi in
gioco per ottenere ciò che più desiderano e per impedire ciò
che più temono. E solo alla fine, se falliscono, a scegliere
l’opposizione. Non dall’inizio, ‘a prescindere’.
Renzi
dice che il Pd ha perso e sarebbe assurdo se andasse al
governo.
Che abbia
perso milioni di voti, non c’è dubbio. Ma che gli elettori
l’abbiano destinato all’opposizione è una sciocchezza. Gli
elettori non mandano nessuno da nessuna parte. Intanto,
perché ‘gli elettori’ non esistono: esiste una molteplicità
di elettori, ciascuno dei quali spera che il suo voto venga
usato per il meglio. Nel proporzionale, diversamente che nel
maggioritario, non esistono vincitori né vinti. Esiste solo
chi va bene e chi va male alle elezioni, chi guadagna voti e
chi ne perde. Ma nessuno è esentato in partenza dalla
responsabilità di contribuire a un governo. Nemmeno chi
raggiunge il 50% più uno è ‘il vincitore’: è solo il più
alto responsabile del dovere di mettere a frutto i voti
ottenuti per agire per il governo del Paese.
Renzi
pensa che, lasciando il pallino in mano agli altri e
restando sull’Aventino in attesa che passino i cadaveri dei
suoi avversari, al prossimo giro recupererà i suoi elettori
perduti.
Difficile
dirlo. Mi pare più probabile che si illuda. Intanto perché
gli elettori non sono né suoi né di nessun altro: sono
cittadini liberi di andare dove vogliono. E poi perché è più
facile rubare voti agli altri che recuperare i propri
fuggiti. Oggi i più arrabbiati col Pd sono proprio gli
elettori che votavano Pd e ora votano 5Stelle: lei crede che
torneranno perché Renzi boicotta qualunque intesa con i
5Stelle e, nel frattempo, apre la strada del governo alla
destra di Salvini? Al contrario, si convinceranno ancor di
più di aver fatto bene a fuggire. E alla prima occasione è
probabile che lo puniranno un’altra volta.
Che
cosa si augura dalla Direzione del Pd?
Che pensi alle
esigenze degli italiani, non a quelle del partito. Solo così
il Pd può recuperare qualche voto. Altrimenti ne perderà
altri a rotta di collo verso i 5Stelle, la Lega e
l’astensione. La storia insegna che, quando le forze
politiche si muovono in base a previsioni sulle proprie
future fortune, queste vengono regolarmente smentite. Pensi
al Rosatellum: doveva danneggiare i 5Stelle, tagliare le
gambe a Salvini e favorire il governo Renzi-Berlusconi.
Invece ha sortito l’effetto diametralmente opposto.
Ma
ormai il Pd è il Partito di Renzi e la maggioranza dei
parlamentari, scelti personalmente dal capo, seguirà il
capo.
Dovrebbero
ricordarsi di essere stati eletti in rappresentanza di tutto
il popolo e, per una volta, pensare all’interesse generale.
Che poi è anche il loro interesse: non rischiare un’altra
disfatta elettorale e non distruggere il loro partito. Del
resto tutte le simulazioni dicono che, se si tornasse a
votare, non esisterebbe comunque un blocco autosufficiente
nemmeno se la Lega e i 5Stelle aumentassero i loro voti. Né
rivotando col Rosatellum (ipotesi più probabile), né
cambiando radicalmente il sistema elettorale (ipotesi,
secondo me, improbabile) per adottarne uno qualsiasi fra
quelli in circolazione. Quindi il dovere di sedersi al
tavolo del più vicino o del meno lontano si riproporrebbe
tale e quale fra qualche mese. Che senso ha rinviare la
scelta, anziché affrontarla, o almeno tentarla, adesso?
Renzi
vuole cambiare le regole sul modello dell’Italicum e della
sua riforma costituzionale per raddrizzare le gambe al
tripolarismo e schiacciarlo in un bipolarismo forzato.
Quell’ipotesi
è già stata bocciata una volta dal 60% degli elettori e
dalla Consulta. Ma soprattutto quella del ‘vincitore la sera
delle elezioni’ è un’idea malsana e soprattutto
incompatibile con l’humus profondo del sistema
politico-sociale italiano. Gli illustri miei colleghi
comparatisti che vagheggiano sistemi ‘Frankenstein’ o
‘supermarket’, copiati un pezzo dalla Finlandia e un pezzo
da San Marino, come se un modello elettorale potesse
prescindere dalla realtà materiale della nostra società,
hanno sempre pronta una soluzione. Ma non si accorgono che
noi italiani non siamo fatti per il bipolarismo brutale, per
l’alternanza secca vincitori-vinti, che infatti – negli anni
seppur ibridi del Mattarellum e del Porcellum – non ha
funzionato. Da noi la troppa semplificazione significa
subito conflitto radicale e occupazione totale del potere.
Infatti siamo tornati al proporzionale, che è più congeniale
al nostro Dna politico e sociale.
Però,
due mesi dopo le elezioni, non si vede l’ombra di un
governo.
Se è per
questo, in Germania – la ‘locomotiva d’Europa’ – di mesi ne
hanno impiegati sei prima di farne uno. Lì non cambiano la
legge elettorale a proprio uso e consumo. Noi invece
crediamo di risolvere i problemi cambiandola in
continuazione. Per giunta alla vigilia delle elezioni,
quando i partiti credono di conoscere il loro interesse
particolare e di poterla ritagliare a propria immagine e
somiglianza, salvo poi prendersi cocenti delusioni.
Non
è meglio il maggioritario, dove gli elettori scelgono nelle
urne chi li governerà, anziché il proporzionale, dove i
partiti decidono dopo le urne un’ammucchiata purchessia per
andare al potere?
Se non la
smettiamo di criminalizzare le coalizioni e di illudere gli
elettori, non ne usciremo mai: anche se importassimo in
Italia il modello dualistico Westminster – ciò che suppergiù
si voleva fare con l’Italicum –, trasferiremmo soltanto le
ammucchiate da dopo il voto a prima del voto. Perché uno dei
tre poli, per vincere, dovrebbe imbarcare tutto e il
contrario di tutto, voto politico e clientelare, voto pulito
e di scambio, già prima di votare, per fare numero e
arrivare davanti agli altri due. Salvo poi scoprire di
essere non una forza politica, ma un calderone. Molto meglio
le coalizioni, purché siano fondate su programmi precisi e
concordati.
Lei,
nonostante tutto, rimane un tifoso del proporzionale.
Mi pare il più
adatto all’Italia di oggi, anche se è – per così dire –
faticoso. Richiede responsabilità e spirito delle
combinazioni. Nella cosiddetta Prima Repubblica, il
proporzionale aveva una sorta di pilota automatico. Le
coalizioni erano obbligate da fattori esterni. La Guerra
fredda aveva diviso il mondo in due blocchi e non si poteva
che stare di qua con la Dc o di là con i comunisti: le
coalizioni erano fondate sull’‘essere’. Ora è tutto più
liquido e fluido, dunque più libero e responsabilizzante
nella scelta delle combinazioni. Si tratta di scegliere di
volta in volta l’alleato più vicino o meno lontano, in
coalizioni basate sul ‘fare’. Cioè partire dai programmi e
da quelli giudicare chi è più vicino e più lontano.
Infatti
Di Maio propone un contratto di governo alla tedesca.
La prospettiva
dei 5Stelle è tutta sul fare: ‘Partire dai programmi e
vedere chi ci sta’. E in questo sono stati corretti,
interpretando in pieno lo spirito del proporzionale. Anche
se poi, secondo me, sono stati troppo disinvolti nel
manifestare indifferenza tra il Pd e la Lega, due forze
molto diverse. È vero che i problemi non sono né di destra
né di sinistra. Ma le soluzioni lo sono, eccome. La
sicurezza urbana, la gestione dei flussi migratori, la
questione fiscale, il tema del lavoro sono problemi che
tutti devono porsi: ma il modo di risolverli non è uguale a
seconda che li si guardi da destra o da sinistra. Il fare
dipende dall’essere, che non si ricava dalle enunciazioni
programmatiche. C’è un ‘non detto’ che viene a galla
sedendosi attorno a un tavolo: è lì che emergono le
‘essenze’ più o meno lontane, più o meno compatibili. E si
formano le coalizioni. Ecco perché, nella nostra innocenza,
sia lei sia io avevamo pensato che la situazione meno
assurda fosse una qualche forma di cooperazione tra 5Stelle
e Pd. Magari per poco tempo, su pochi punti, con una delle
tante soluzioni pratiche di cui il bizantinismo politico
italiano è sempre stato maestro.
Invece,
per Renzi e molti altri dirigenti del Pd, l’“essere” e anche
il “fare” dei 5Stelle sono orripilanti quanto quelli della
Lega. Non invece di Berlusconi…
Ci si può
chiedere come il Pd, che persino Renzi si ostina a definire
‘sinistra’, possa assumersi la responsabilità di ritirarsi
sull’Aventino senza indicare una sola alternativa
all’ipotesi di un’intesa con i 5Stelle su un programma
sociale, senza approfittare dei tanti temi che Grillo e Di
Maio hanno mutuato dal bagaglio del centrosinistra e che il
Pd ha abbandonato ormai da anni. E così favorire un governo
non solo con Berlusconi, con cui il Pd si è trovato così
bene per anni; ma addirittura con la Lega, cioè con quanto
di più lontano esista al mondo dai valori della sinistra.
Come faranno a spiegarlo ai loro elettori rimasti, quando si
tornerà alle urne?
Renzi&C.
obiettano che Di Maio e Salvini sono due populisti gemelli.
E che oggi, come ai tempi della Guerra fredda, c’è di nuovo
una pregiudiziale sull’essere più che sul fare: non più tra
comunisti e anticomunisti, ma tra populisti e antipopulisti.
Senza contare il deficit di democrazia interna dei 5Stelle.
Sulla
democrazia interna, forse dimenticano lo statuto e le prassi
ultraventennali di Forza Italia, partito aziendale e
padronale per eccellenza, con cui hanno fatto governi e
addirittura riforme elettorali e costituzionali. Quanto al
cosiddetto ‘populismo’, mi pare una parola magica evocata da
chi non vuol entrare nel merito delle cose. ‘Populista’ era
Perón, ma anche papa Giovanni XXIII, come ora Bergoglio. Lo
era anche Berlusconi, che ora invece – chissà perché –
sarebbe anti. I populisti sono sempre gli altri: quelli con
cui si vuole litigare senza spiegare perché. Ultimamente si
chiamano populisti quelli che propongono misure a favore del
popolo e utilizzano metodi costituzionali per migliorare le
vita ai propri concittadini, quando non si sa come
altrimenti squalificarli. Penso al reddito di cittadinanza,
o di dignità, o di inclusione: se è solo una promessa
campata in aria per raccattare voti è populismo, ma se è una
misura strutturale, con adeguate coperture finanziarie, per
ridurre le diseguaglianze e sostenere chi cerca lavoro è una
scelta democratica per eccellenza, non populista. Populista
invece è chi sostituisce i diritti con i favori e pratica il
voto di scambio, come alcuni ultimi governi iperpopulisti.
Ma anche chi disprezza le istituzioni e scavalca la loro
logica oggettiva per appellarsi direttamente al popolo. La
tentazione populista è universale, oltreché vecchia come il
mondo: nessuno ne ha l’esclusiva e nessuno ne è immune.
Lei,
ora, vede una soluzione?
Gliel’ho
detto. Un governo di coalizione su pochi punti, anche di
durata limitata, anche con appoggi esterni, sull’asse
5Stelle-Pd (o, se Renzi preferisce, su quello
centrodestra-Pd). E un Parlamento che sostituisca il
Rosatellum con una legge proporzionale a preferenza unica,
senza liste bloccate di nominati né paracadutati con le
famigerate multicandidature, che ci restituisca un
Parlamento di veri eletti dai cittadini, quindi capaci di
autonomia. I quali poi diano vita a coalizioni omogenee e, a
fine legislatura, ne rispondano agli elettori. Quella
attuale, paradossalmente, è la situazione ideale per questo
approdo: la maggior parte delle forze politiche non è in
grado di fare previsioni attendibili sul futuro proprio e
altrui alle prossime elezioni. I 5Stelle potrebbero
logorarsi o crescere ancora. Il Pd potrebbe scomparire,
spaccarsi un’altra volta, oppure rigenerarsi (anche se, su
questa china, non si vede come). Berlusconi è
nell’incertezza più totale. Salvini è l’unico che pare
sicuro di sé, ma non è mai detta l’ultima parola. Il
filosofo politico John Rawls usava un’espressione felice per
dipingere la condizione dei sistemi politici al loro esordio
o alla loro rinascita: ‘Il velo dell’ignoranza’. È quella la
condizione ideale per la nascita delle Costituzioni o delle
leggi costituenti per eccellenza come quelle elettorali.
Cos’è
oggi il velo dell’ignoranza?
Il fatto che
nessuno sappia esattamente come andranno le prossime
elezioni ci consentirebbe di fare una legge elettorale equa
e democratica, senza fasulle aspettative per questa o
quell’altra bottega. Come nel biennio 1946-48, quello della
Costituente: nessun partito sapeva chi avrebbe tratto
beneficio da questa o da quell’altra scelta, dunque seppero
tutti elevarsi al di sopra dei loro interessi particolari
perché nessuno poteva prevedere come favorirli. Mi auguro
che, dopo due mesi di veti e Aventini, qualche partito
sappia ragionare, se non alla luce dei grandi ideali o del
bene comune, almeno del velo dell’ignoranza. E pensare a
quel che serve all’Italia. Cercando un’intesa sulle cose da
fare per farne bene almeno qualcuna, almeno per un po’. Le
pare impossibile?
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