Più che
all'integrazione mirano all'assimilazione, e vogliono regolare le
cosiddette "società parallele" o "ghetti" in cui vivono gli
stranieri
All’inizio di marzo il
governo della Danimarca, guidato da una coalizione di centrodestra,
ha proposto di introdurre una serie di leggi per regolamentare la
vita delle persone che vivono in 25 zone del paese abitate
soprattutto da persone musulmane.
L’obiettivo è imporre
di fatto una loro “assimilazione”, più che un’integrazione nella
società danese. Le proposte sono ventidue, fanno parte del
cosiddetto “pacchetto ghetto” e alcune sono state molto criticate.
Una di queste proposte
è già stata approvata con il sostegno anche dell’opposizione,
guidata dai socialdemocratici. Dal prossimo anno i bambini che
provengono dai cosiddetti “ghetti”, a partire da un anno di età
verranno separati dalle rispettive famiglie per almeno 25 ore alla
settimana per ricevere un’istruzione obbligatoria in “valori
danesi”: verranno insegnati loro i principi costituzionali dello
Stato, la lingua danese e anche la cultura nazionale, comprese le
tradizioni del Natale e della Pasqua.
Non partecipare al
programma potrebbe avere conseguenze sul diritto ad accedere al
sistema sanitario nazionale.
L’obiettivo dichiarato
del “pacchetto ghetto” è costruire un tessuto sociale omogeneo con
valori comuni. Quasi l’87 per cento dei 5,7 milioni di abitanti
della Danimarca è di origine danese, gli immigrati e i loro
discendenti rappresentano il resto.
Due terzi degli
immigrati, circa mezzo milione di persone, provengono da paesi
musulmani, un gruppo che è aumentato negli ultimi anni con l’arrivo
di rifugiati afghani, iracheni e siriani.
Il governo sta dunque
concentrando le proprie politiche sui quartieri urbani in cui gli
immigrati vivono (e che spesso sono stati collocati lì proprio dal
governo) e che rappresentano una difformità rispetto a un modello
sociale piccolo e molto poco eterogeneo: i “quartieri ghetto” sono
stati selezionati sulla base del reddito dei residenti, del tasso di
occupazione, dei livelli di istruzione e del numero di condanne
penali superiore alla media nazionale.
Nel suo
discorso
annuale di fine anno l’attuale primo ministro danese, Lars Løkke
Rasmussen, ha dedicato molto spazio a quelle che ha definito
«società parallele»: luoghi in cui, ha spiegato, «i bambini crescono
in un ambiente in cui non è normale che i genitori vadano a
lavorare.
Dove il denaro non è un salario
guadagnato. Sto parlando delle zone residenziali dove i giovani sono
costretti a sposare una persona che non amano e dove le donne sono
considerate meno importanti degli uomini. (…) Zone dove le persone
non si assumono le loro responsabilità, non partecipano, non
sfruttano le opportunità che abbiamo in Danimarca, ma stanno fuori
dalla comunità».
Il primo ministro ha attribuito la
colpa a «decenni di politica lassista sull’immigrazione: «In
Danimarca sono state fatte entrare più persone di quante fossimo in
grado di integrare».
Ha detto che non si può cambiare il
passato, ma che dal passato si può imparare per il futuro, ha
spiegato che serve una politica dell’immigrazione «ferma» e che è
necessario impedire che «i ghetti allunghino i loro tentacoli per le
strade».
Molti politici che una volta usavano la parola
“integrazione”,
ha scritto
il New York Times,
ora usano la parola “assimilazione”. Alcune delle proposte contenute
nel pacchetto hanno però un evidente obiettivo punitivo: una delle
novità in esame consentirebbe ai tribunali di
raddoppiare
le pene per determinati reati nel caso in cui vengano
commessi in uno dei 25 quartieri classificati come “ghetti”.
Un’altra misura imporrebbe una
condanna a quattro anni di carcere ai genitori dei bambini immigrati
che costringono i loro figli a fare visite prolungate nel paese di
origine, visite che sono state descritte dal governo come “viaggi di
rieducazione” e che danneggerebbero, sempre secondo il governo, la
formazione che hanno ricevuto, il loro apprendimento della lingua e
il loro benessere.
Un’altra misura ancora consentirebbe
alle autorità locali di aumentare il monitoraggio e la sorveglianza
delle “famiglie ghetto”: il Partito Popolare Danese, DF, di estrema
destra, ha proposto di non far uscire dalle loro case i “bambini del
ghetto” dopo le 8 di sera.
Un parlamentare ha suggerito che i
ragazzini di queste zone potrebbero essere dotati di braccialetti
elettronici alla caviglia.
Yildiz Akdogan, una parlamentare
socialdemocratica la cui circoscrizione comprende Tingbjerg, un
grande progetto abitativo a sei chilometri a nord dal centro di
Copenaghen che è classificato come “ghetto”, ha detto che i danesi
sono diventati talmente insensibili alla dura retorica sugli
immigrati da non rendersi più conto della connotazione negativa
della parola “ghetto” e del fatto come quella parola rimandi alla
Germania nazista e alla separazione degli ebrei dal resto della
popolazione.
Ha detto che in questo particolare
momento storico «i fatti non contano molto, ma contano solo i
sentimenti». Chi si oppone al nuovo approccio del governo sostiene
che creando un sistema di leggi che si applicano solo a una parte
della società, crea effettivamente quelle società parallele che si
vorrebbero invece eliminare.
I bambini danesi non sono obbligati
ad andare a scuola fino ai sei anni di età: una cosa è il fatto di
voler insegnare loro la lingua, un’altra è in qualche modo
obbligarli ad assimilarsi alle tradizioni religiose di un paese.
Ancora più grave sarebbe creare un sistema penale parallelo e
speciale solo per alcune categorie di persone.
A questi argomenti ha risposto lo
scorso giugno il ministro della Giustizia danese Søren Pape Poulsen durante
il
festival di
politica Folkemødet a cui hanno partecipato 110mila
persone: «Alcuni si lamenteranno e diranno: “Non siamo uguali
davanti alla legge in questo paese” o “alcuni gruppi sono puniti più
duramente”, ma non ha senso».
Ha detto che l’aumento delle pene,
per esempio, riguarderebbe solo le persone che infrangono la legge.
E a coloro che affermano che le misure colpiscono i musulmani, ha
risposto: «È una sciocchezza: non importa chi vive in queste zone e
in cosa crede, deve professare i valori necessari per avere una vita
buona in Danimarca».
Il New York Times
ha intervistato alcune delle persone che vivono nei cosiddetti
“ghetti”: Rokhaia Naassan è incinta e suo figlio quando avrà un anno
rientrerà nel programma prescolare obbligatorio.
Vive con le sue quattro sorelle a
Mjolnerparken, un complesso residenziale di quattro piani in mattoni
rossi che si trova a Nørrebro, Copenaghen, e che è stato
classificato come uno dei peggiori ghetti della Danimarca: il 43 per
cento dei residenti è disoccupato, l’82 per cento proviene da
“background non occidentali”, il 53 per cento ha una scarsa
istruzione e il 51 per cento ha guadagni relativamente bassi.
Le sorelle Naassan si sono chieste perché dovrebbero essere
coinvolte dalle nuove leggi.
I bambini dei rifugiati libanesi,
hanno spiegato, parlano ad esempio danese senza alcun accento e
parlano così poco l’arabo che riescono a malapena a comunicare con i
loro nonni.
Sara, che ha 32 anni, ha detto che
fino a qualche anno fa era molto difficile avere a che fare con
sentimenti anti-musulmani, in Danimarca. Ma ha aggiunto: «Forse è
quello che si è sempre pensato, e ora viene tutto allo scoperto». E
ancora: «La politica danese riguarda solo i musulmani, ora. Vogliono
che ci assimiliamo o che ce ne andiamo. Non so quando saranno
soddisfatti di noi».
Barwaqo Jama Hussein, una rifugiata
somala di 18 anni, ha raccontato che molte famiglie di immigrati,
compresa la sua, erano state sistemate nei quartieri “ghetto” dal
governo. Lei si è trasferita in Danimarca quando aveva 5 anni e ha
vissuto nella zona del ghetto di Tingbjerg da quando ne aveva 13. Ha
detto che la descrizione che i politici fanno delle “società
parallele” semplicemente non corrispondeva al vero: «Fa male che non
ci vedano come persone uguali. Viviamo effettivamente nella società
danese. Seguiamo le regole, andiamo a scuola. L’unica cosa che non
facciamo è mangiare carne di maiale».
I socialdemocratici negli ultimi anni si sono
spostati a destra sui temi dell’immigrazione, dicendo che sono
necessarie misure più severe per proteggere lo stato sociale. Rune
Lykkeberg, caporedattore di Dagbladet
Information, un quotidiano locale
di sinistra, ha spiegato al New York Times:
«I critici direbbero che lo Stato non può costringere i bambini a
lasciare i loro genitori durante il giorno, e che questo è un uso
sproporzionato della forza. Ma i socialdemocratici dicono: “Noi
diamo soldi alle persone e vogliamo qualcosa in cambio per questi
soldi”. Questo è un sistema basato su diritti e doveri.
La concezione anglosassone è che
l’uomo è libero nella natura, e che poi arriva lo Stato a limitare
quella libertà. La nostra concezione della libertà è il contrario,
che l’uomo è libero solo nella società. Si potrebbe dire,
ovviamente, che i genitori hanno il diritto di allevare i propri
figli come vogliono. Vorremmo dire però che non hanno il diritto di
distruggere la futura libertà dei loro figli». «Naturalmente», ha
aggiunto, «c’è sempre un forte rischio di deriva autoritaria».