Il titolo, “Le nuove
politiche per i migranti in Danimarca”, non rende giustizia ai
contenuti di questo pacchetto normativo detto “ghetto” varato dal
Paese scandinavo con l’obiettivo di costruire un tessuto sociale
omogeneo. Cosa si intende per omogeneo?
Dai valori
costituzionali e dalla lingua comuni in un Paese di quasi 6 milioni
di abitanti, dove l’87% dei cittadini è di origine danese e il
restante 13% è costituito da immigrati di prima, seconda o ben più
lontana generazione.
Circa due terzi di
questi stranieri, pari a mezzo milione di persone, provengono da
Paesi musulmani, specialmente i nuovi richiedenti asilo fuggiti da
Siria, Afghanistan e Iraq.
Come usuale, la
concentrazione di migranti nelle aree urbane “più degradate” (o in
ogni modo meno appetibili, evidenziate da affitti più economici) può
talvolta trasformarsi nella creazione di aree ad alta presenza di
migranti, spesso proprio con la benedizione governativa che così ivi
concentra sicurezza e interventi sociali.
Ed è proprio questo
il piano del governo danese: attivare un pacchetto di azioni in
“quartieri ghetto” ad alta immigrazione, identificati sulla base del
numero dei residenti, del tasso di occupazione, dei livelli di
istruzione e del numero di condanne penali superiori alla media
nazionale. È sulle 22 proposte, non ancora tutte approvate, che
emergono più di una perplessità. La prima può riguardare
l’imposizione alle famiglie di inserire i bambini all’asilo nido a
partire da un anno di età per almeno 25 ore alla settimana allo
scopo di apprendere al meglio la lingua e la cultura nazionale.
Un dovere che
potrebbe suscitare la ferma opposizione di molte famiglie non pronte
a un distacco di questo genere, al pari di analoghe famiglie danesi
doc (o anche italiane), che però a quelle “del ghetto” potrebbe
costare l’accesso al sistema sanitario nazionale e il godimento dei
sussidi.
Peraltro da che
mondo è mondo, sono proprio i giovani di seconda generazione, nati o
comunque cresciuti sin da piccoli nel Paese di accoglienza, a
fungere da naturali mediatori linguistici e culturali per i propri
genitori e il resto della famiglia; senza alcun obbligo.
Questa disposizione
è stata già approvata dal governo del primo ministro danese, Lars
Løkke Rasmussen, con l’appoggio dei socialdemocratici, e si unisce a
un’altra misura in ambito scolastico: a partire dal settembre 2019
nelle scuole collocate nei quartieri ghetto diventerà obbligatorio
sottoporre i giovani studenti a test di conoscenza linguistica prima
di confermare la loro ammissione a qualsiasi ciclo di studi.
Non mancano misure
dal carattere più propriamente “punitivo” e di sradicamento dalla
cultura di origine, quale quella che prevede 4 anni di carcere ai
genitori che porteranno i bambini “di seconda generazione” a fare
visite prolungate nei loro Paesi di origine.
Questi viaggi sono
infatti intesi non tanto come strumento di recupero delle radici e
di conoscenza di parenti pressoché sconosciuti ma, nell’ottica del
progetto, un danno alla rieducazione che i giovani stanno ricevendo
dallo Stato tanto nell’apprendimento della lingua quanto nel loro
più ampio benessere.
L’impressione
dell’intero pacchetto è di voler sostituire piani di integrazione
con strumenti di forzata assimilazione; o meglio di dissuadere i
migranti o i richiedenti asilo a vivere in Danimarca visto il
trattamento a cui saranno sottoposti.
La contaminazione
che qualsiasi incontro tra popoli presuppone viene cancellata da un
tentativo di imporre cultura-lingua-tradizioni-valori
costituzionali.
Ben venga certamente
la volontà di formare i futuri cittadini della Danimarca, ma il
monitoraggio delle “famiglie ghetto”, la possibilità di dotare i
ragazzini di braccialetti elettronici o addirittura la possibilità
di imporre il coprifuoco serale assumono funestamente i connotati
del “sistema ghetto” ideato dai nazisti per separare gli ebrei dal
resto della popolazione.
Di fatto, in un
Paese come la Danimarca che non prevede l’obbligo della scuola per i
bambini fino ai 6 anni, il dovere del nido a partire dal primo anno
di vita, l’assimilazione forzosa di tradizioni culturali e religiose
altre, e, ancora più grave, la creazione di un sistema penale
differenziato per solo una parte della società, creerebbe davvero
quelle società parallele che questo piano legislativo dovrebbe
mirare a smantellare.
Con una retorica che
ricorda la volontà degli afrikaner nel Sudafrica del secondo
dopoguerra di uno sviluppo separato per bianchi da una parte e per
neri/colorati dall’altra parte e meglio conosciuto col termine di
apartheid, che ne è la traduzione fedele, il ministro della
Giustizia danese Søren Pape Poulsen ha risposto alle possibili
critiche di chi è colpito dai provvedimenti sbeffeggiando che non è
vero che “non si è uguali davanti alla legge nel Paese” perché
l’aumento delle pene riguarderebbe solo chi le infrange. E ha
definito “una sciocchezza” l’imposizione di cultura e religione
dichiarando che l’importante è che ogni cittadino “deve professare i
valori necessari per avere una vita buona in Danimarca”.
Che il rischio di
una deriva autoritaria e razzista sia dietro l’angolo è evidente.
Che si tratti di una politica totalmente miope anche. La limitazione
delle libertà, o anche la repressione, per chi è diverso dalla
maggioranza non può portare buoni frutti. Già in natura la perdita
di biodiversità è accuratamente da evitarsi, ne va della
sopravvivenza della specie.
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