Quando nacque il web, era davvero un luogo diverso, statico.
Fatto di pagine create o da chi aveva uno staff o da
individui esperti di informatica, per quei tempi.
Con l’avvento dei social media, il web si è completamente
trasformato. Ora gran parte dei contenuti è prodotto dagli
stessi utenti. Ci sono video su YouTube, articoli sui vari
blog, recensioni di prodotti o post sui social media. È un
luogo interattivo, dove le persone interagiscono tra
loro, commentano, condividono e non si limitano più a
leggere. É un mondo bidirezionale.
Facebook non è l’unico luogo in cui si possono fare queste
cose ma è il più grande, ed è utile per farsi un’idea in
numeri. Facebook ha oggi più di 2 miliardi di utenti. La
metà degli abitanti della Terra connessi a Internet usa
Facebook.
Ma il punto è un altro. Su questi social le persone hanno
immesso gratuitamente una quantità enorme di dati personali,
tutti online. Ci sono dati sul comportamento, dati
demografici e dati sulle preferenze di centinaia di milioni
di persone. Tutto questo non ha precedenti nella storia.
In quanto esperta di informatica, ho creato modelli in grado
di dedurre ogni tipo di informazione dai dati che la gente
regala sui social.
Noi scienziati usiamo questi dati per semplificare il modo
in cui le persone interagiscono online, ma esistono anche
usi meno altruistici e il problema è che gli utenti non
comprendono bene queste tecniche né il loro funzionamento, e
se anche lo capiscono non ne hanno il controllo.
Oggi voglio parlarvi di alcune cose che siamo in grado di
fare e poi voglio proporre qualche idea su come muoverci per
riportare parte del controllo nelle mani degli utenti.
Target è una compagnia e ha inviato un volantino a una
quindicenne con della pubblicità e dei coupon per biberon,
pannolini e culle, due settimane prima che lei sapesse di
essere incinta.
Come ha fatto Target a capire che questa liceale era
incinta?
È venuto fuori che l’azienda ha la cronologia degli
acquisti di centinaia di migliaia di clienti e calcola
quello che chiamano un punteggio di gravidanza. Non rivela
soltanto se una donna è incinta oppure no, ma anche la data
prevista della nascita. Lo so è incredibile.
E questo lo calcolano non analizzando le cose ovvie, tipo:
“sta comprando una culla o vestiti per bambini”, ma cose
come “lei ha comprato più vitamine di quanto non faccia di
solito”, oppure “ha comprato una borsa grande, non l’aveva
mai fatto prima”, “ha prenotato un viaggio costoso o ha
fatto preventivi su mete lontane e esotiche”, ecc.
Presi singolarmente, questi acquisti non sembrano poter
rivelare granché, ma è un modello di comportamento che, se
visto nel contesto di migliaia di altre persone, rivela
molto. Questo è il tipo di lavoro che svolgiamo quando
facciamo previsioni su di voi nei social media. Cerchiamo
piccoli modelli di comportamento per scoprire tutta una
serie di cose.
Nel mio laboratorio, insieme ai miei colleghi, abbiamo
sviluppato dei modelli, con cui possiamo prevedere con
precisione informazioni come le vostre preferenze
politiche, il vostro tipo di personalità, il vostro genere,
l’orientamento sessuale, la religione, l’età,
l’intelligenza, insieme a cose come quanta fiducia avete
nelle persone che conoscete e quanto sono forti le relazioni
che avete con loro. Riusciamo a fare tutto questo molto
bene.
E ripeto, non deriva da quelle cose che potreste considerare
delle “informazioni ovvie”.
Ma cos’è che collega un contenuto totalmente
irrilevante alla caratteristica che ne viene dedotta?
Per rispondere a questo dobbiamo considerare tutta una serie
di teorie che ci illustrano perché si possa fare una cosa
del genere. Una di queste è una teoria sociologica, si
chiama “omofilia”.
Sostanzialmente dice che le persone fanno amicizia con chi è
come loro o più simile a loro. É una naturale attrazione
verso il simile. Per fare esempi molto semplici, se sei
intelligente tenderai ad essere amico di gente
intelligente e se sei giovane tenderai ad essere amico di
gente giovane. È un meccanismo consolidato da centinaia di
anni.
Un’altra teoria che utilizziamo è quella che descrive la
diffusione delle informazioni. Cose come i video virali, i
“Mi Piace” su Facebook o altre informazioni si diffondono
nei social esattamente come le malattie. È una cosa che
abbiamo studiato a lungo e abbiamo dei buoni modelli che lo
illustrano.
Se si mettono tutte queste cose insieme, si comincerà a
capire come possano accadere cose del genere. È roba
abbastanza complicata, vero? Non è facile mettersi lì a
spiegarlo a un utente medio. E poi, anche
sapendolo, l’utente medio cosa ci può fare?
Come fai a sapere che qualcosa che ti piace denota una tua
caratteristica che non c’entra nulla con il contenuto di
quella pagina che ti piace? Gli utenti non hanno modo di
controllare come venga usata questa informazione. E questo
per me è un problema serio. Penso che dobbiamo ridare agli
utenti un po’ di controllo sui loro dati, perché non sempre
questi dati saranno utilizzati a loro vantaggio.
Una delle strade che potremmo seguire è quella di creare
leggi e linee di condotta. Osservando il procedimento
legislativo al giorno d’oggi penso che sia estremamente
improbabile che un gruppo di rappresentanti si metta lì a
studiare questo problema e metta in atto velocemente una
serie di cambiamenti alle leggi sulla tutela della proprietà
intellettuale, in modo da rendere gli utenti proprietari dei
propri dati.
Ma allora che possiamo fare? Abbiamo fatto molti studi per
sviluppare tutti questi meccanismi per interpretare i dati
personali. Dovremmo fare lo stesso per sviluppare dei
meccanismi che permettano di dire all’utente: “Ecco, questo
è il rischio collegato all’azione che hai appena compiuto.
Mettendo “Mi Piace” su quella pagina Facebook o condividendo
queste informazioni personali, hai migliorato la mia
capacità di capire se fai uso di stupefacenti o meno o se ti
sai relazionare bene sul posto di lavoro”.
Penso che questo possa influenzare l’inclinazione personale
a condividere un’informazione, inserirla mantenendola
privata o addirittura non inserirla affatto.
Potremmo anche pensare a funzionalità che permettano agli
utenti di criptare i dati che inseriscono, in modo che
diventino invisibili e senza valore per siti come Facebook o
servizi di terze parti che lo utilizzano.
Quando parlo di queste cose, spesso la gente mi dice che se
gli utenti iniziassero a mantenere privata la loro vita,
tutti questi metodi sviluppati per dedurre informazioni su
di loro non funzionerebbero più.
Al che io rispondo che lo spero, che lo vedo come un
successo. Come scienziato, il mio obiettivo non è desumere
informazioni sugli utenti, bensì migliorare il modo in cui
le persone interagiscono online. A volte questo implica
dedurre informazioni su di loro, ma se gli utenti non
vogliono che io utilizzi alcuni dati, penso che sia un loro
diritto.
Incoraggiare questo tipo di scienza e supportare i
ricercatori che vogliono restituire parte di quel controllo
agli utenti, sottraendolo alle aziende di social media, vuol
dire che andando avanti, avremo una base di utenti
informata e responsabilizzata.
Penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che questo sarebbe
il modo ideale di procedere.
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