Cinque o sei centesimi
per un numero di telefono fisso. Venti centesimi per
un numero di cellulare. Sono i prezzi dei nostri nomi e
cognomi che girano e rigirano nei cervelloni dei call
center, da cui partono in automatico le telefonate che
ci propongono qualunque cosa, dall’abbonamento della pay tv
ai depuratori per l’acqua.
Le nostre identità di consumatori sono il petrolio di
un mercato forse poco conosciuto, fatto di aziende che
“producono” dati e altre che li comprano per fare marketing.
In questa catena di montaggio c’è chi si procura nomi e
numeri regolarmente, ma anche chi lo fa in modo illecito.
Accanto alle liste autorizzate, esiste un mercato nero di
“liste non ufficiali”, composte da dati acquisiti senza
il consenso dei diretti interessati. Dati che possono
passare nelle mani dei call center, che così violano la
nostra privacy con telefonate indesiderate.
Il business dei dati personali: più sanno di te, più vali
Il meccanismo funziona così: ci sono le aziende che
forniscono liste di numeri telefonici alle società che
devono fare campagne di telemarketing, le quali a
loro volta le passano ai call center interni o in
outsourcing.
Tra le aziende più grandi che forniscono liste di dati in
Italia, ci sono Consodata (gruppo Seat Pagine Gialle)
e Cemit (Mondadori). Poi, ce ne sono altre più
piccole, come Addressvitt, Elenchi Telefonici o Edipro.
Le società fornitrici di dati possono ottenere le liste di
utenti da fonti diverse. «La principale fonte sono gli
elenchi telefonici, costruiti tramite il database unico
(Dbu), che raccoglie i numeri dei clienti di tutti gli
operatori telefonici che hanno dato il consenso a
comparire», spiega Fabrizio Vigo, amministratore
delegato di Consodata.
«Per l’uso commerciale di questi dati non è previsto il
consenso degli interessati, ma è necessario comunque
verificare se negli elenchi ci siano nomi iscritti al
Registro
delle opposizioni».
Se un cliente chiede ad esempio una lista di 10mila numeri
per una certa campagna di telemarketing, aziende come
Consodata devono quindi prima filtrarla dai nomi di chi ha
chiesto di non ricevere più chiamate per scopi commerciali o
indagini di mercato.
«Una volta “ripulita”», continua Vigo, «la lista dei numeri
viene messa a disposizionde del cliente per le proprie
campagne per un certo periodo, solitamente un mese». Una
lista di dati, insomma, non viene venduta per sempre: si
tratta piuttosto di un noleggio.
Poi ci sono liste composte dai nomi di chi ha messo la
crocetta sul consenso al trattamento dei dati personali per
fini commerciali. Cosa che avviene più spesso di quanto
pensiamo, anche se lo facciamo con leggerezza: quando
sottoscriviamo una carta fedeltà al supermercato, ad
esempio; o ancora quando facciamo un acquisto online,
partecipiamo a un concorso sul web o recensiamo un albergo.
«In questo caso si tratta di dati consensati, che
comprendono non solo il telefono fisso ma anche il numero di
cellulare», spiega Vigo. «E spesso sono dati profilati». Con
informazioni aggiuntive come l’età e le abitudini di
acquisto.
Ecco perché i prezzi salgono. «I dati consensati
hanno un costo per chi li acquista di circa 20 centesimi per
singolo dato», spiega Vigo. «I dati degli elenchi
telefonici, che hanno poche variabili di profilatura, se non
il genere, la collocazione territoriale e a volte la
professione, costano circa un terzo o un quarto».
Il Financial Times nel 2013 ha messo a punto
un sistema
per calcolare il valore dei dati personali: i dati
profilati di un lavoratore del settore non profit valgono ad
esempio 19 centesimi di dollaro circa; ma se dici di essere
milionario il prezzo sale a 30 centesimi.
Essere proprietari delle liste di dati di milioni di utenti,
chiaramente, è una ricchezza. E più dettagliati sono, più il
valore aumenta. Aziende come Consodata non solo sono
titolari delle liste, ma fanno anche da concessionarie per
liste che appartengono ad altri.
«Fornendo ad esempio alle aziende i dati di cui è titolare
un sito di comparazione dei prezzi», spiega Vigo. Una sorta
di due diligence. «Ma anche su questi dati
acquisiamo le informative, per verificare che non ci siano
violazioni della privacy».
Il mercato nero delle liste non ufficiali
Fin qui come dovrebbe funzionare il mercato. Ma come accade
in molti settori, anche quello dei dati personali ha i suoi
pirati. I cosiddetti “sottoscalisti”, come li
chiamano nel gergo del settore. Ossia le aziende che
producono e vendono liste non autorizzate. In questi
calderoni si trova di tutto. Non solo i nomi degli iscritti
al Registro delle opposizioni, che quindi non dovrebbero
essere contattati.
Ma anche i numeri estratti illegalmente dalle pagine
personali di Facebook o Twitter, o da altri siti, tramite
software specifici che fanno web scraping, una
sorta di “pesca a strascico”. Niente fonti ufficiali,
niente consenso. E anche i prezzi di queste liste sono più
bassi. Ecco perché convengono.
Al Garante per la privacy, di recente, sono arrivate
segnalazioni di una società che diffondeva i dati di oltre
12,5 milioni di persone, memorizzati automaticamente
attraverso script in grado di raccogliere qualsiasi
informazione pubblicata online. E ora si sta valutando
l’applicazione di una sanzione amministrativa contro la
società.
«Esistono liste ufficiali e non ufficiali», racconta
Alexandrah, ex operatrice di call center. «Quando usavamo le
liste non ufficiali, i team leader ci istruivano su come
comportarci.
Se chiamavo una persona iscritta al Registro delle
opposizioni, dovevo far finta di aver composto un altro
numero. Quindi per esempio chiedevo di una persona diversa
ubicata nella stessa via, per cui il numero avrebbe potuto
essere simile».
L’altra tecnica, per evitare di essere beccati, è quella di
telefonare da numeri anonimi, mettendo giù quando chi
risponde chiede spiegazioni sulla chiamata. Una pratica,
anche questa vietata, visto che chi fa la telefonata
pubblicitaria è obbligato a rendere visibile il numero in
entrata.
Peggio ancora quando le chiamate sono mute. I
numeri da chiamare in un call center non vengono digitati a
mano dagli operatori, ma partono in automatico tramite un
software. L’operatore libero prende la chiamata in cuffia.
Ma a volte, per eliminare i tempi morti tra una telefonata e
un’altra, dal cervellone parte un numero di chiamate
superiore a quello degli operatori disponibili.
Il malcapitato utente riceve una chiamata, ma dall’altra
parte non c’è nessuno. Una pratica commerciale che in alcuni
casi ha comportato il disturbo degli utenti anche per 10-15
volte di seguito, e che è stata vissuta spesso come una
forma di stalking, spiegano dal Garante.
Che a fine 2014 ha chiarito una serie di regole sulle
chiamate mute, ma non le ha vietate del tutto: ad esempio,
non possono essere più di tre su 100 andate a buon fine, e
non possono durare più di tre secondi. Finché sulla
questione a gennaio 2016 si è espressa anche la Cassazione,
che le ha
definito
“illegittime”.
In ogni caso, se c’è qualcuno dall’altra parte del telefono,
chi riceve la chiamata può chiedere all’operatore di call
center di non venire più ricontattato. Una volta fatta
la richiesta, il nome dovrebbe essere cancellato dalla
lista. Almeno sulla carta. «Non lo facevamo mai», racconta
Alexandrah.
«Se dicevano che non volevano più essere disturbati, il nome
si metteva comunque nella lista dei “richiama più tardi”.
Quindi rigirava ancora nel sistema e veniva richiamato altre
volte. Solo alla fine, dopo innumerevoli no, il numero
poteva essere cancellato. Ma era molto raro, perché la
lista la dovevi sfruttare all’infinito. Sulla stessa
lista si lavorava per quattro-cinque mesi».
Il rischio per le società di call center è che l’utente che
riceve chiamate indesiderate faccia una segnalazione al
Garante per la privacy, che può comminare multe salate.
A meno che la chiamata non sia anonima. In caso di
violazione accertata del diritto di opposizione, si può
applicare una sanzione da 10mila a 120mila euro.
Dal 2011 al 31 dicembre 2015 sono state contestate sanzioni
per 2,6 milioni di euro. Ma evidentemente non fanno così
paura.
«Negli ultimi quattro mesi abbiamo ricevuto oltre 2mila
segnalazioni in merito alle pratiche di telemarketing»,
dicono dal Garante. «Le principali lamentele si riferiscono
a persone contattate da numeri oscurati, di cui non si può
verificare il chiamante, persone contattate anche se
iscritte al Registro pubblico delle opposizioni, e persone
che vengono contattate anche se la loro numerazione è
riservata, cioè non presente negli elenchi pubblici».
Questi due ultimi casi, però, precisano, «non rivelano di
per sé trattamenti illeciti poiché gli interessati
potrebbero aver autorizzato, magari senza averne piena
consapevolezza, l’uso dei propri dati per finalità di
marketing a un’altra azienda».
Un mercato che ha bisogno di più regole
In Italia esistono circa
2.500 call center,
ma i più grandi non sono più di 190. Per un
fatturato di 1,2 miliardi di euro, che cresce di anno in
anno (nel 2015 è cresciuto del 2,4%). In questa galassia di
piccoli e grandi operatori, il caos regna sovrano. Tra
delocalizzazioni selvagge in Paesi che non rispettano le
regole sulla privacy italiane, contratti di lavoro
irregolari e qualità dei servizi che lascia sempre più a
desiderare.
«Servirebbe un’azione regolatoria con leggi specifiche che
vengano anche applicate», dice Roberto Boggio,
presidente di Assocontact, l’associazione di categoria dei
call center in outsourcing aderente a Confindustria, che il
10 marzo 2016 ha approvato proprio un
“Codice
etico contro le chiamate moleste”.
«Oggi in questo settore c’è un buon grado di autonomia che
può degenerare in anarchia. Quella dei dati è un’area in
cui esiste ancora molta incertezza tra cosa è lecito e cosa
no. E in quest’area pullulano le liste non autorizzate,
con call center che le regole se le sono fatte da soli».
Gli operatori (sani) del settore da qualche tempo stanno
chiedendo al Garante per la privacy un codice deontologico
sul telemarketing. Con una sorta di blacklist degli
operatori che fanno concorrenza sleale, anche acquisendo
liste raccolte senza rispettare le regole. Il codice al
momento è in stand-by, in attesa dell’annunciato regolamento
europeo sulla privacy che dovrebbe sostituire i codici
nazionali.
Intanto,
sul sito
del Garante si trovano tutte le indicazioni utili
per opporsi alle telefonate commerciali invadenti, ma anche
i moduli per esercitare il diritto di accesso all’origine
dei dati. Per risalire, cioè, al “colpevole” che ha inserito
il nostro nome, cognome e numero di telefono nelle liste dei
call canter. Anche senza il nostro consenso.
|