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Uno scenario raccapricciante,
situazione spaventevole e foriera di tregenda. Gabicce Mare,
Italia.
Scena: interno giorno, pizzeria. I
clienti spazientiti si alzano dai tavoli e infornano da soli le loro
pizze. Turisti belgi lavano i piatti. Le mogli sono salite a
rassettare le stanze dell’albergo.
Esterno giorno, si compila la lista
degli annegati, perché i bagnini erano “giovani del Sud” che
adesso che sono ricchissimi col reddito di cittadinanza, e col cazzo
che vengono a Gabicce a fare i bagnini.
Vale anche per camerieri, cuochi,
aiuto cuochi, fattorini, commessi, baristi. Insomma ha fatto rumore
il grido d’allarme lanciato dal sindaco
di Gabicce Domenico Pascuzzi: manca personale per
la stagione estiva perché “mancano i destinatari del reddito di
cittadinanza”.
Mannaggia! Non c’è giornale
italiano, sito, rivista, blog, che non riprenda la notizia. Come
faremo? Moriremo tutti.
Un senatore del Pd eletto in
Toscana, non dei più svegli, salta subito sul carretto: “Ecco,
pagano la gente per stare a casa!”.
Fine del siparietto.
Tutta roba archiviabile come rumore di fondo. Anche perché,
naturalmente, non è così.
Il presidente degli albergatori del
posto dice (intervistato
da questo giornale) che il reddito di cittadinanza non
c’entra niente, insomma fake news in piena regola
(aggiungo che se uno l’anno scorso ha lavorato a Gabicce,
regolarmente, coi contributi, e dichiarato tutto per bene, il suo
Isee non gli concederebbe quest’anno il reddito di cittadinanza).
Allarmismo e furbizia, conditi come
spesso avviene con quella sottile patina di scandalo borghese antico
come il mondo: “Signora mia, dove andremo a finire”. Un
borbottio padronale travestito da moralismo: il reddito di
cittadinanza “diseducativo” (sempre il senatore di prima).
Cioè che ti disabitua a prendere un
treno da Salerno o Avellino, e andare a fare la stagione in
Romagna alla pensione Vattelapesca, dieci-dodici-quindici ore al
giorno, metà in nero, per guadagnare alla fine un salario da fame
senza diritti, come subito hanno precisato in rete migliaia di
“fannulloni” dal loro divano, raccontando le loro vite reali di
stagionali.
Ma i più attenti riconosceranno in
questa schermaglia pre-estiva, un nucleo centrale della narrazione
padronale di questi anni. Una cosa che rimbalza periodicamente su
titoli e titoloni, servizi dei Tg, costernate filippiche: la favola
dell’imprenditore che non trova i lavoratori, che pure assumerebbe
felice e generoso, ma quelli niente, maledetti, non hanno voglia di
lavorare.
È una favola bella, ma solo
all’inizio, perché poi immancabilmente, qualcuno va a vedere meglio.
E così si scopre che l’annuncio era un cartello di carta sulla
vetrina, o su Facebook, oppure che le condizioni sono
insopportabili, o gli orari assurdi, e la paga troppo bassa.
Dopo la notizia (tipo: “Panettiere
disperato si butta nel forno perché non trova garzoni”) arrivano
migliaia di domande e curriculum, ovvio. Ma intanto la voce gira, la
favola si consolida, il sentire comune diventa: “Guarda, il lavoro
c’è, ma la gente non ha voglia”.
È che il dumping sui salari,
la compressione del lavoro, il disprezzo dei contratti nazionali, la
mortificazione del lavoratore hanno bisogno di un sostegno
narrativo, di una voce diffusa che li sostenga in qualche
modo, di quel “Signora mia, dove andremo a finire”.
Una piccola marea, un’increspatura
di indignazione popolare, costante, immutabile, ogni volta
risvegliata dalla notizia del giorno, da un sindaco di Gabicce o di
altrove, per quei lavoratori che non vogliono lavorare. Che nello
storytelling padronale di fine anni 10 sono quasi sempre
giovani, quasi sempre “del Sud” e sempre immancabilmente fancazzisti.
“Diseducati” ad accettare regole del mercato che scivolano spesso (e
volentieri!) verso la schiavitù.
Proprio
stronzi, eh?
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