Chi conosce persone di
“sinistra” sa che si è subito diffusa una sorta di sollievo
nell’apprendere del ritorno dei socialdemocratici al governo della
Danimarca. Stesso partito con rigoroso pedigree socialista
(occupazione, salari, attenzione alle scuole e agli ospedali,
protezione ai più deboli, sostegno a famiglie e bambini, parità
delle donne) con in più un correttivo che ha subito portato al
successo: tutti sì, ma gli immigrati no.
Sono i giorni in cui reparti
militari americani al confine con il Messico e reparti militari
messicani al confine con il Guatemala sono schierati in fitta catena
per impedire che le disperate carovane di famiglie in fuga dal
banditismo e dalla fame, che continuano ad arrivare dai poverissimi
Stati centroamericani, possano passare il confine e varcare la
frontiera.
I confini sono chiusi e devono
restare chiusi.
Se lo restano, decenni di illusorio
lavoro delle Nazioni Unite nel tentativo di mettere in contatto i
ricchi con i poveri, e di colmare, almeno fino a un grado minimo di
sopravvivenza, i paurosi dislivelli di esistenza e sopravvivenza fra
popoli e popoli, Stati e Stati, e giochi economici ben congegnati
dove comunque il più forte si prende tutto, saranno stati inutili.
Ancora una volta il leader mondiale
della riorganizzazione del mondo è il presidente Usa. Donald Trump
ha portato una straordinaria innovazione nella storia del mondo
agiato.
Prima di lui, presidenti americani
avevano cercato, con vera grandezza di visione (Roosevelt, Kennedy,
Carter, Clinton, Obama) di accostare le due parti (i ricchi e i
poveri, gli stanziali e i profughi) e altri avevano soltanto
espresso, ma con cautela e moderazione, buoni sentimenti e nessun
tentativo di cambiare le cose.
Trump ha fatto squillare le trombe
di un giudizio universale che proclama il diritto di razza, e di
controllo esclusivo della propria ricchezza. Si tratta di proclamare
un riconoscimento delle cose così come sono: i ricchi si difendono
dietro confini chiusi e armati, pronti alla vendetta in caso di
violazione (con diritto di prelievo di qualunque bene di necessità
esistente presso i poveri, come il titanio in Africa).
I poveri restano dove sono anche in
caso di rovinosi cambiamenti climatici e di malattie. E, per
precauzione, i volontari vengono scoraggiati, disprezzati e, in caso
di rischio per la loro vita, denigrando ogni tentativo di salvezza
come un costo inutile.
Abbiamo sempre detto che Trump è un
pessimo americano, e che gli americani della grande tradizione
solidarista sono contro.
Ma proprio in questi giorni una
importante rivista “liberal” (The Atlantic) titola: “Se i
progressisti non fanno rispettare le frontiere, ci penseranno i
fascisti” (cito da Repubblica, 7 giugno).
È la posizione del celebre e
ultra-liberal sindaco di New York De Blasio, e di più di metà dei
democratici che – a Washington – hanno il controllo di una delle
Camere.
Ma anche del socialista Sanders e di
molti democratici post kennediani. La vera differenza fra le due
posizioni prevalenti sulle barriere alla migrazione sta diventando
il linguaggio e i modi di dissuasione.
Secondo alcuni italiani, per
esempio, “il muro” dovrebbe smettere di salvare in mare e dichiarare
reato il salvataggio. Ciò che colpisce è che non si intravedano
tentativi di affrontare il problema “migranti” come si fa con le
malattie: non si negano ma si affrontano con espedienti che puntano
al malanno, non alla persona malata.
Prevale di nuovo la parola
frontiera, come se il ricordo di un mondo con le frontiere chiuse
(che portano fatalmente armi, soldati e guerra) fosse andato
perduto, dopo avere insanguinato la storia.
Un fatto sensazionale poco notato ma
tristemente esemplare è la visita (che viene descritta come
“amichevole”) fra Aung San Suu Kyi (Nobel per la Pace, lungamente
prigioniera politica e ora presidente formale di Myanmar-Birmania) e
il leader Orbán, che il dizionario, e non l’opinione, impone di
definire “fascista”.
Orbán ha costruito una vasta
barriera di filo spinato per isolare l’Ungheria, non ha mai visto un
migrante, la sua minoranza da reprimere sono gli intellettuali
liberi e antifascisti del suo Paese.
Ma fa da sponda e alleato ai
sovranisti e suprematisti europei come i leghisti italiani. La Nobel
birmana conosce la tragedia del suo Paese, la persecuzione della
minoranza uigura, e non l’ha mai condannata.
Siamo di fronte all’espandersi di un
“buon senso” di frontiera, un fenomeno grave e in crescita? Qualcuno
sta trovando un punto di congiunzione fra il timore di ritorno del
fascismo e un modo di rassicurare i cittadini che rafforza la
democrazia?
O stiamo assistendo a un forte
sbandamento a destra? Quando sapremo a quale sponda del guado stiamo
approdando, dovremo riconoscere che solo il Papa, tra i leader, ha
continuato a vedere gli immigrati come esseri umani in cerca di un
aiuto che la peggiore destra e la migliore sinistra hanno, quasi con
le stesse ragioni, negato.
|