|
Il caso Palamara rivela che c’è del marcio nella Danimarca
della magistratura. E non si tratta di qualche mela, ma di
una vera e propria questione morale. Una crisi degenerativa
che dovrebbe imporre le dimissioni di tutti i coinvolti e
riforme strutturali – a cominciare dalla riforma radicale
dell’elezione al CSM – per contrastare il verminaio e non
far piombare le toghe nel discredito presso i cittadini.
Un’indagine della magistratura di Perugia, ancora in corso,
ha messo in luce, al di là dei reati penali che
eventualmente verranno contestati, “gravissime violazioni di
natura etica e deontologica”, “inammissibili interferenze
nel corretto funzionamento del Csm”, e insomma “l’esistenza
di una questione morale nella magistratura”.
I fatti, giustamente stigmatizzati con i giudizi sopra
riportati, sono purtroppo ormai accertati, attraverso le
registrazione tramite “trojan”: riunioni clandestine nelle
quali Luca Palamara, leader per anni e anni della corrente
Unicost, discuteva con altri magistrati (quattro si sono
autosospesi dal Csm) e soprattutto con Cosimo Maria Ferri,
dominus per decenni della corrente Magistratura indipendente
e ora deputato Pd (sottosegretario alla Giustizia nei
governi Letta, Renzi, Gentiloni), e con Luca Lotti,
onorevole del Pd e braccio destro di Renzi, sulle nomine dei
capi delle Procure dell’intero stivale.
Qualche spudorato dice che i rapporti tra politica e
magistratura sono normali e anzi doverosi: se i membri del
Consiglio superiore della magistratura, per due terzi
magistrati e per un terzo di nomina politica, discutono fra
loro in Csm, va da sé che fanno solo il loro lavoro.
Se ne discutono invece con Palamara, che dal Csm è fuori, e
soprattutto con due onorevoli che sulla scelta dei
Procuratori non hanno alcuna voce in capitolo, allora
realizzano esattamente “inammissibili interferenze nel
corretto funzionamento del Csm” e “gravissime violazioni di
natura etica e deontologica”, come denuncerà il tempestivo
documento dell’Associazione nazionale magistrati, votato
all’unanimità il 5 giugno dal proprio comitato direttivo
centrale.
Una delle nomine in ballo, quella di peso massimo, è la
direzione della Procura di Roma. Dove Lotti è indagato. Ci
vuole tutta la bulemica impudenza di Matteo Renzi, perciò,
per dire che “sull’inchiesta del Csm ho visto tanta
ipocrisia solo per attaccare i nostri”. I nostri.
Puerilità che vale quasi una confessione.
Del resto è un europarlamentare Pd appena eletto, l’ex
Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, ad aver
chiesto con toni ultimativi al Partito Democratico “finora
silente, di prendere una posizione di netta e inequivocabile
condanna dei propri esponenti coinvolti”, visti i
comportamenti “assolutamente certi” per “manovrare sulla
nomina del successore di Giuseppe Pignatone”, dove il
riferimento a Luca Lotti e Cosimo Maria Ferri è
lapalissiano. Con l’aggiunta di una denuncia senza mezzi
termini del governo Renzi come causa prima della
degenerazione: “nel 2014 il governo Renzi, all’apice del suo
effimero potere, con decreto legge, abbassò improvvisamente,
e senza alcuna apparente necessità e urgenza, l’età
pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Quella
sciagurata iniziativa era palesemente dettata da un duplice
interesse: liberare in anticipo una serie di posti direttivi
per fare spazio a cinquantenni rampanti, in qualche caso
inseriti in ruoli di fiducia di ministri, alla faccia della
indipendenza dei magistrati dalla politica”. E a “tentare di
influenzare le nuove nomine in favore di magistrati ritenuti
(a torto o a ragione) più ‘sensibili’ di alcuni loro arcigni
predecessori verso il potere politico. Il disegno è almeno
in parte riuscito perché da allora, mentre il Csm si
affannava a coprire gli oltre mille posti direttivi oggetto
della ‘decapitazione’, si scatenava la corsa selvaggia al
controllo dei direttivi, specie delle procure. Il caso
Palamara ne è, dopo cinque anni, la prova tangibile, sebbene
temo sia soltanto la punta dell’iceberg”.
Insomma, c’è del marcio nella Danimarca della magistratura,
e non si tratta di qualche mela, ma di una vera e propria
“questione morale nella magistratura”, come denunciato il 3
giugno dall’assemblea di 400 magistrati del distretto
dell’Anm di Milano. Del resto Davide Ermini, vicepresidente
del Csm e in stretto contatto col capo dello Stato che del
Csm è presidente, parlerà di “giochi di potere e traffici
venali”.
Sarebbe perciò ovvio, se la decenza avesse corso, che i
quattro magistrati “autosospesi” (una misura che rasenta
l’aria fritta), si fossero ormai dimessi. Ma la loro
corrente, dopo aver votato in sede Anm tutte le durissime
frasi sopra riportate, ha deciso, almeno nella sezione della
Cassazione, un ignominioso voltafaccia: “piena fiducia”,
“totale solidarietà”, tornino a sedersi nel Csm. Se si
dimettessero, infatti, due dei quattro subentranti
apparterrebbero alla corrente/non corrente di Pier Camillo
Davigo, che dell’intransigenza contro la degenerazione ha
fatto la sua ragione d’esistenza.
Allora meglio il marcio? È questo che volete, signori
magistrati di Magistratura indipendente? Le altre correnti,
malgrado alcune abbiano loro esponenti coinvolti, hanno
immediatamente reagito, dichiarando chiusa l’esperienza di
direzione unitaria nell’Anm, chiedendo la convocazione
immediata degli organismi direttivi, e denunciando “le gravi
responsabilità di fronte alla magistratura e al Paese” che
Magistratura indipendente, se continuasse su questa strada,
si assumerebbe, col rischio di creare “un incidente
istituzionale senza precedenti [che] potrebbe condurre
all’adozione di riforme dell’organo di autogoverno dal
carattere ‘emergenziale’”. In realtà è anche peggio. I
partiti tutti, infatti, tranne il M5S (ma qualcuno tra i
loro è sensibile alle sirene), non vedono l’ora di
realizzare il disegno non riuscito a Berlusconi: separare le
carriere e mettere procure e pubblici ministeri al
guinzaglio del potere politico.
Aggiungiamo che alla ultimativa richiesta di Franco Roberti
Nicola Zingaretti ha risposto con un inverosimile “Luca
[Lotti] mi ha assicurato che non ha commesso alcun atto di
illegalità”, argomento inoppugnabile che palesemente taglia
la testa al toro, e il quadro (allo stato attuale) è
completo.
Abbiamo una crisi degenerativa della magistratura e della
sua autonomia, abbiamo una corrente che pur di non perdere
scranni di potere (Magistratura indipendente, con Cosimo
Maria Ferri per decenni suo dominus) se la prende con la
“faziosa campagna di stampa” anziché con l’immondo traffico
delle indulgenze denunciato dal moderatissimo vicepresidente
Ermini (che in questi giorni assai improbabilmente apre
bocca senza il previo consenso del Capo dello Stato, che del
Csm è presidente).
Abbiamo l’urgenza improcrastinabile delle dimissioni di
tutti i coinvolti e della sostituzione secondo le attuali
modalità di legge, che fortunosamente e fortunatamente, per
provvidenza divina (noi atei preferiamo chiamarla “il caso”)
vedrebbero al Csm una iniezione di autonomia e intransigenza
morale. Abbiamo la necessità che le nomine in ballo
avvengano sotto i riflettori, con tutta la discontinuità
necessaria rispetto a troppe opacità di alcune vicende
recenti (la nomina di Lo Voi a Palermo, in barba a tutti i
criteri statuiti, e per volontà catafratta di Giorgio
Napolitano, è solo l’esempio più eclatante).
Abbiamo, last but not least, la necessità delle
riforme strutturali che rendano sempre più arduo il
riprodursi e il semplice allignare o anche solo germogliare
del verminaio. Necessità di dimettersi dalla magistratura
prima di candidarsi a cariche elettive. Proibizione di
incarichi extragiudiziari retribuiti. Tanto per cominciare e
per “non indurre in tentazione”. Abrogazione delle
controriforme Castelli (Lega al governo con Berlusconi) del
2005 e Mastella 2006 (centro-sinistra con Prodi), che
abrogano l’ultraventennale autonomia dei sostituti
procuratori, facendo del Procuratore Capo un vero e proprio
dominus anziché primus inter pares (come i Borrelli,
Caponnetto, Caselli delle migliori stagioni della giustizia
eguale per tutti), oltre a numerose altre nefandezze di
quella stagione di inciucio.
E abbiamo, davvero ineludibile, la riforma radicale
dell’elezione al Consiglio superiore della Magistratura.
Credo che ricorrere al sorteggio per i componenti magistrati
(i due terzi) sia la soluzione migliore. Eventualmente
stabilendo che sia necessario avere una certa anzianità di
servizio (cinque o dieci anni) per conoscere i colleghi. I
magistrati sono solo alcune migliaia. Se fanno seriamente il
loro lavoro, aggiornandosi sulle sentenze oltre che sulle
leggi, e partecipano anche alla ricca vita associativa,
culturale e ideale, che le “correnti” dovrebbero garantire,
praticamente si conoscono tutti. Il loro status
costituzionale li mette tutti sullo stesso piano, sono
“soggetti soltanto alla legge” e “inamovibili”, si
“distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”
(artt. 101 e 107 della Costituzione). Che necessità c’è che
siano dei “rappresentanti”, con l’inevitabile lotta per il
consenso e i suoi strascichi? Ciascuno può garantire
l’autonomia della magistratura nel Csm, esattamente come
ciascuno deve garantire il cittadino, che entri in un
tribunale come accusato o parte lesa, che “la legge è eguale
per tutti”. Il sorteggio ha una nobile tradizione
democratica, fin dai primordi greci. Sorteggiati sono i
cittadini comuni, in maggioranza nelle Corti d’Assise
italiane, che giudicano i reati da ergastolo (negli Usa è
l’intera giuria ad essere sorteggiata).
Resta la componente di nomina politica (un terzo). Qui la
riforma appare più ardua, visto il precipitare verso il
basso della qualità dei politici ad ogni generazione, che la
riforma dovrebbero oltretutto votare. La cosa migliore
sarebbe farli eleggere fra gli ex presidenti della Corte
Costituzionale, o misure analoghe.
Perché una magistratura autonoma e degna del nome,
inattaccabile moralmente, soggetta solo alla legge, cioè
alla Costituzione repubblicana e ai suoi valori, è il bene
democratico più prezioso, il “potere dei senza potere”.
Contro questa magistratura ha iniziato il suo lavoro
eversivo il potere politico con Berlusconi, proseguito poi
con i ministri della giustizia bipartisan e il susseguirsi
di controriforme quasi identiche, governasse il
centro-destra o il centro-sinistra. Fino a che una parte
della magistratura è diventata soggetto attivo nell’opera di
“normalizzazione” che ha umiliato “la legge eguale per
tutti” a favore dei soliti “eccellenti” e impuniti.
Ora le vie di mezzo non sono più possibili. O la
magistratura troverà la forza dentro di sé per pulire le
stalle di Augia con erculea intransigenza, o piomberà nel
discredito presso i cittadini, come già per le forze
politiche e il resto dell’establishment, quel kombinat
affaristico corruttivo che trascina l’Italia verso il
disastro, di cui anche la magistratura finirebbe o comunque
rischierebbe di diventare parte.
(10 giugno 2019)
|
|