Nel tempo della storiografia da bar - ultimo Tajani - un
libro dello storico Francesco Filippi smonta tutte le "fake
news" costruite dal fascismo e che dopo quasi cent'anni
resistono ancora sui social. Tra conferme (come sulla
storiella dei fascisti onesti) e sorprese (il disastro della
ricostruzione dopo un sisma in Lucania). Ma perché? "Pensare
a un passato positivo lascia una speranza a chi è scontento
del presente"
Le cose buone
che
Mussolini
ha fatto
non esistono.
Ha fatto cose infami, come le
leggi razziali,
preso decisioni scellerate, come l’ingresso
in una guerra
che fu subito una
disfatta,
cancellato (quell’assaggio di) libertà e democrazia.
Ma se si
rovista in mezzo al resto
non ci sono cose buone.
Di sicuro non le cose buone che gli vengono attribuite, con
conferimento d’onori alla memoria (scarsa) e con la
insinuante forza del sentito dire, ripetuto a filastrocca,
con indolenza, per passaparola, che ora può contare su
un’iniezione di velocità
ed efficacia,
grazie alle
reti sociali.
Eppure non
sono buone nemmeno le cose che sono pronti a riconoscere, ad
ammettere, quasi tutti: nemmeno la
bonifica delle paludi,
nemmeno le
pensioni.
L’operazione
di smontaggio delle storielle sui
presunti meriti residui
del dittatore che ha trascinato il Paese al disastro
militare, politico, economico, morale e umano è la base
di
Mussolini ha fatto anche cose buone,
scritto dallo storico
Francesco Filippi
(Bollati Boringhieri, 160 pagg., 12 euro).
E’ come un pamphlet ma un po’ più lungo, è come un saggio ma
più ruvido perché non gira intorno alle cose, consuma le
edizioni una dopo l’altra, le librerie lo tengono
direttamente di fianco alle casse.
Un po’
perché è il periodo giusto (quello di una rivalorizzazione
dei toni antifascisti dovuta alla cronaca, dal
Mediterraneo
a
Torre Maura)
e un po’ perché, appunto, è come una frustata. Uno schiaffo,
a partire dal sottotitolo: “Le idiozie che continuano a
circolare sul fascismo”. Una scrollata utile a svegliarsi
dall’assuefazione, dal lasciar dire.
Un “manuale
di autodifesa”,
come scrive nella prefazione lo storico
Carlo Greppi
(sotto i 40 come Filippi), autodifesa contro il fenomeno che
è davanti agli occhi di tutti, tutti i giorni: “Centinaia di
migliaia di persone che esprimono il loro apprezzamento e
condividono compulsivamente
balle colossali,
balle che
il fascismo mise in
circolazione
nella prima metà del secolo scorso,
intestandosi risultati
altrui
o truccando la realtà”. “Gli storici”, aggiunge Greppi,
hanno “prodotto
un incessante lavorio di
demolizione
del
‘mito’ del fascismo buono.
Ma, come si dice, non c’è peggiore sordo di chi non vuol
sentire”.
La storiografia da bar, da Salvini a Tajani
La pena aumenta quando la
storiografia da bar
diventa linguaggio pubblico, politico, come dimostra il
concionare di tutti i principali leader del centrodestra, da
Berlusconi
a
Salvini,
passando per il presidente del Parlamento europeo,
Antonio Tajani,
l’ultimo a straparlare.
Come
cocorite, hanno imparato una frase imparata non si sa dove e
iniettata a lento rilascio nell’immaginario falsato della
cittadinanza. Salvini,
2016: “Mussolini fece tante cose buone in vent’anni, prima
delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler.
Fu Mussolini
a introdurre la pensione di reversibilità per garantire la
natalità nel caso morissero lui o lei. La
previdenza sociale
l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i
marziani.
In 20 anni, prima della folle alleanza con Hitler e delle
leggi razziali, delle cose giuste le fece sicuramente:
stiamo parlando di
pensioni,
poi le
bonifiche.
C’erano
intere città, come
Latina,
che erano paludi”.
Tajani,
2019: “Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e
non condivido il suo pensiero politico però se bisogna
essere onesti, ha fatto
strade, ponti, edifici,
impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra
Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale”.
E’ la
zona grigia del
riduzionismo,
come l’ha chiamata tempo fa
Ezio Mauro:
non c’è bisogno di essere fascisti per rivalutare il
fascismo.
Infps, l’unica riforma del fascismo fu il nome (e la f non è
un refuso)
In effetti il ministro Salvini aveva ragione: la previdenza
sociale in Italia non l’hanno portata i marziani. Ma nemmeno
Mussolini e il fascismo. Come ricostruisce Filippi nel
libro, il
primo sistema di garanzie
pensionistiche
– destinato ai soli impiegati del pubblico e ai militari – è
del 1895,
governo Crispi.
Tre anni
dopo il
governo Pelloux
estenderà le coperture a una serie di categorie lavorative e
fonderà il primo istituto antenato dell’Inps. Infine nel
1919, governo liberale di
Vittorio Emanuele Orlando,
il sistema viene “imposto a tutte le aziende come
obbligatorio:
da quel momento
tutti i lavoratori
italiani ebbero per diritto la pensione”.
E il
fascismo? Quando prende il potere si preoccupa – abolito il
ministero del Lavoro – di
concentrare tutte le
funzioni
che hanno a che fare con il welfare sotto la
Cassa Nazionale
col risultato di provocare “l’appesantimento del sistema e
la
sua progressiva
inefficienza”,
sottolinea Filippi.
E poi, nel
1933, una riforma imponente:
cambia il nome all’istituto, che diventa
Infps,
con la effe che deve fare da neon da insegna. “Un tentativo
propagandistico – spiega Filippi – di impossessarsi di
quello che nei fatti era stato il frutto di decenni di
contrattazioni e lotte
sindacali,
di riforme attuate dai governi liberali e di iniziative
delle associazioni di categoria dei lavoratori”.
Nel
frattempo quel che fa davvero il fascismo per i lavoratori
è, nel 1926, stabilire che potevano esistere
solo sindacati fascisti
e
vietare lo sciopero e la
serrata,
mettendo sotto giogo in un colpo solo i lavoratori e gli
imprenditori.
L’Infps
negli anni diventerà
una macchina da stipendi,
uno sfogatoio per le
clientele
e quindi un produttore di consenso.
Le bonifiche, una scomoda verità
Littoria,
il simbolo del miracolo, la città fondata sulle terre
strappate all’acqua, l’orgoglio della potenza fascista che
nel 1933 dichiara la propria vittoria: la
missione impossibile
delle bonifiche,
perfino nell’Agro
Pontino,
è compiuta.
Lì dove sono
caduti tutti, il fascismo è riuscito. Ma è un racconto
possibile solo grazie a una “grande operazione
pubblicitaria”, obietta lo storico
Francesco Filippi
nel libro. La realtà la dicono i numeri che danno conto
piuttosto di
una serie di fallimenti,
a dispetto delle convinzioni falsificate.
Il fascismo,
rimarca Filippi, aveva promesso di restituire
all’agricoltura
8 milioni di ettari di terreni riqualificati:
un’enormità. Dopo dieci anni di lavori più tentati che
andati a segno e fiumi di denaro pubblico finiti come accade
sempre con il fascismo a amici degli amici e collettori di
consenso del regime (come l’Opera
nazionale combattenti),
il governo annuncia il successo del
recupero di 4 milioni di
ettari.
E’ comunque
tanto, qua la mano: medaglia. Ma Filippi indaga sui
particolari e scopre che
i lavori “completi o a buon punto”
arrivano a
poco più di 2 milioni di ettari.
E –
bluff nel bluff
– “di questi due milioni,
un milione e mezzo
erano bonifiche concluse dai
governi precedenti al
1922”.
Insomma, non
dal fascismo. “In pratica – conclude Filippi – era stato
portato a termine
poco più del 6 per cento
del lavoro”.
E’ De Felice, uno dei più autorevoli storici del fascismo, a
certificare – ricorda Filippi – che i risultati, nel
complesso, furono inferiori “alle aspettative suscitate nel
Paese dal battage propagandistico messo in atto e finirono
per non corrispondere all’entità dello sforzo economico
sostenuto”. A riuscirci saranno poi
i governi del Dopoguerra,
grazie ai fondi del
Piano Marshall
e della
Cassa del Mezzogiorno.
Il fascismo immobiliare
Le case agli italiani!,
gridano oggi i fascisti nelle periferie di Roma. Ma se
aspettavano Mussolini, stavano freschi. La prima legge sulle
case popolari
infatti è del
1903,
per iniziativa di
Luigi Luzzatti,
deputato liberale che poi sarà presidente del Consiglio.
I maggiori
progetti di sviluppo urbano nelle grandi città con fame di
abitazioni nascono tutti nei primi 15-20 anni del Novecento:
Roma
(la
Garbatella
per esempio),
Torino,
Napoli,
Milano.
L’unico
tocco “decisivo” del fascismo, nel 1935, è quello di gestire
il sistema a livello provinciale. Annota ancora Filippi:
“Come in altri campi della cosa pubblica, anche nell’edilizia
popolare
il fascismo si limitò a porre
sotto il proprio
controllo
e ribattezzare strutture amministrative nate nell’Italia
liberale”.
Viceversa, a
fronte di grandi progetti colossali come l’Eur,
“la situazione abitativa” rimase “emergenziale
anche negli anni più tardi del fascismo”. E la carenza di
alloggi fu aggravata dalla decisione di Mussolini di portare
l’Italia in una guerra mondiale, il che provocò com’è
evidente la rinuncia alle
case che invece c’erano:
due milioni di vani andarono distrutti e un altro milione fu
danneggiato, sintetizza Filippi.
L’oro alla patria. E agli italiani niente
Ma era meglio quando si stava peggio. E invece no. Come
spiega Filippi, durante il Ventennio fascista, il
divario della ricchezza
media
tra un italiano e un cittadino degli altri Paesi sviluppati
si allargò.
Un po’ per
colpa della
congiuntura
internazionale
(la crisi del ’29), un po’ per i
problemi strutturali,
ma anche perché “tutte le iniziative prese” dai governi di
Mussolini “contribuirono a peggiorare la situazione”.
Un effetto
fu la
divaricazione delle
disuguaglianze:
i ricconi, quasi tutti aderenti al regime, da una parte e la
massa della popolazione dall’altra. Unica via d’uscita:
l’emigrazione.
E’ meglio
ora, che si sta meglio di quando si stava peggio, e scusate
l’ovvietà: oggi, ricorda ancora Filippi, il reddito medio
italiano è
circa il 90 per cento
di un Paese europeo avanzato come la
Francia.
Negli anni Trenta
era il 33.
Smascherare il Duce (e le sue bufale vecchie cent’anni)
Mussolini ha fatto cose
buone
spoglia dunque il Duce di tutti i suoi
camuffamenti:
previdente, bonificatore, costruttore, legalitario,
economista, condottiero o perfino femminista.
In alcuni
casi ribadire è necessario, ma più semplice: come sulla
presunta legalità
di un partito che si è fatto spazio anche con le
manganellate agli avversari e poi ha fondato il potere su
clientele e corruzioni (con tanto di morto ammazzato –
Giacomo Matteotti
– in possesso di documenti su una tangente che toccava il
fratello di Mussolini,
Arnaldo).
O come per
la propaganda per la formazione di un
popolo soldato
al servizio di un regime che però in vent’anni le ha perse
tutte e quando le ha vinte lo ha fatto con la sete di sangue
di generali come Rodolfo
Graziani,
il macellaio di Fezzan.
In altri casi, invece, il risultato del
fact-checking di Filippi è sorprendente: per esempio
l’incredibile incapacità
burocratica, operativa e finanziaria per la ricostruzione
delle zone terremotate tra
Basilicata
e
Vulture
dopo il sisma del 1930 (ricostruzione alla fine mai
avvenuta) o come le leggi razziste approvate per le colonie
del
Corno d’Africa
e della
Libia
(a proposito di responsabilità post-coloniali dei Paesi
europei) che disponevano anche
deportazioni di massa
di berberi e arabi. “A rileggere queste disposizioni sorge
il dubbio su chi,
tra fascisti e nazisti,
abbia copiato l’altro” scrive Filippi.
La memoria avvelenata di chi è
scontento del presente
Lo
smascheramento dei falsi – così tante volte
ripetuti da diventare imponenti, come le valanghe che si
autoalimentano – non è solo un’operazione che rimette
in
linea con la realtà delle cose, ma produce
l’effetto di scoprirne
di
nuove, di inaspettate: una rigenerazione.
“Mentre le fake
news sul presente servono a indirizzare l’opinione del
pubblico a cui sono rivolte – scrive lo storico Filippi – le
false notizie sulla storia hanno lo
scopo più profondo di
rassicurare chi le accetta nei propri sentimenti,
nelle proprie emozioni.
Una balla sul
passato è
rassicurante, conferma sensazioni di cui altrimenti
ci si vergognerebbe”.
Di più:
“Pensare a un ipotetico passato positivo
lascia una speranza nell’animo di chi è
scontento del proprio presente. In un momento di
velocità e valori fluidi, avere un posto sicuro e tranquillo
in cui rifugiarsi è rinfrancante, anche se questo posto è la
memoria, anche se questa memoria è
falsa”.
Mussolini ha fatto cose buone diventa
un modo per depurare la memoria
avvelenata di
un popolo che ha il male della mancata resa dei conti con la
Storia, per giunta
con quella fondativa della Repubblica, quel poco di
religione civile che
una parte d’Italia non cura né apprezza, qui compreso il
ministro dell’Interno che confonde la nascita della
democrazia con la riduzione a una partita tra destra e
sinistra.
Anzi, fu
proprio De Felice, viene ricordato nel libro, a spiegare a
destra e sinistra il motivo della sua ricerca sul fascismo,
durata tutta la vita: “I fatti sono assai
più eloquenti e persuasivi delle
filippiche di certo antifascismo
da comizio e
di tante schematizzazioni che fanno acqua da tutte le
parti”. Era il 1975 e sembra ieri.
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