Grande emigrazione.
Intere cittadine, come Padula in provincia di Salerno,
videro la loro popolazione dimezzarsi nel decennio a
cavallo tra '800 e '900. Di questi quasi un terzo aveva
come destinazione dei sogni il Nord America, affamato di
manodopera.
A partire non erano solo braccianti.
Gli strati più poveri della popolazione in realtà non
avevano di che pagarsi il viaggio, per questo tra gli
emigranti prevalevano i piccoli proprietari terrieri che con
le loro rimesse compravano poi casa o terreno in patria.
E, proprio come gli immigrati oggi che
giungono da noi, non iniziavano l'avventura con tutta la
famiglia: quasi sempre l'emigrazione era programmata
come temporanea e chi partiva era di solito un maschio solo.
Viaggi della speranza. Di
solito chi partiva dalle regioni del Nord si imbarcava a
Genova o a Le Havre in Francia. Chi partiva dal Sud invece
si imbarcava a Napoli. Un sacco imbottito di paglia e un
orinatoio ogni 100 persone erano gli unici comfort di un
viaggio che poteva durare anche un mese.
L'approdo dei bastimenti di emigranti è
l'isola di
Ellis
Island, nella baia di New York.
In molti muoiono durante il viaggio
e quelli che sopravvivono vengono esaminati scrupolosamente
dalle autorità sanitarie: si teme che gli italiani portino
malattie, come il tracoma (un'infezione degli occhi che
rende ciechi).
Alle visite mediche segue una visita
psico-attitudinale. Chi non supera i controlli, che possono
durare anche tre giorni (in cella), viene marchiato con una
X sui vestiti e rimandato indietro.
Sui documenti rilasciati agli italiani, accanto alla scritta
white (bianco), che indica il colore della pelle, a volte
c'è un punto interrogativo: è un
altro indice del razzismo che devono subire gli italiani da
una parte della società americana.
Molti morivano prima di vedere il Nuovo Mondo.
Una volta arrivati, superato l'umiliante filtro dell'ufficio
immigrazione di Ellis Island, iniziava la sfida per
l'integrazione.
Se in Sud America conquistarsi un posto nella
nuova patria fu più facile, negli Stati Uniti era una
faticaccia.
I nostri connazionali preferivano così
ghettizzarsi nei quartieri italiani e frequentare scuole
parrocchiali, rallentando così la diffusione dell'inglese
nelle comunità.
Pregiudizi.
Negli Stati Uniti che da poco avevano abolito
la schiavitù si diceva che gli italiani non erano bianchi,
"ma nemmeno palesemente negri".
In Australia, altra destinazione, erano
definiti "l'invasione delle pelle oliva". E poi
ancora "una razza inferiore" o una "stirpe di
assassini, anarchici e mafiosi".
Il presidente Usa Richard Nixon
intercettato nel 1973 fu il più chiaro di tutti. Disse: "Non
sono come noi. La differenza sta nell'odore diverso,
nell'aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Il guaio é
che non si riesce a trovarne uno che sia onesto".
Tra il 1892 e il 1954 (anno della sua
chiusura), furono circa 20 milioni gli uomini, le donne e i
bambini che fecero tappa nell’immigration point di
Ellis Island, un piccolo isolotto poco distante da
Manhattan, dove tutti gli immigrati venivano controllati e
accettati.
Dazi e frontiere.
Negli Usa l'immigrazione dall'Italia si fermò con
la
Prima
guerra mondiale. Nel 1921 l'Emergency
quota act impose un tetto al numero di immigrati
dall'Europa dell'Est e del Sud in quanto si riteneva che
popoli come quelli italiani fossero meno assimilabili. Solo
con la Seconda guerra mondiale, grazie all'arruolamento
nell'esercito statunitense di molti italoamericani
l'integrazione fece concreti passi avanti.
Italia chiama Europa.
Forse anche per questo nel secondo dopoguerra
ci fu una ripresa dell'emigrazione dall'Italia agli Usa.
Ma ormai si era aperta una nuova rotta verso
l'Europa del Nord: Francia, Germania e Belgio le mete più
gettonate.
Eppure nemmeno qui i nostri connazionali
furono accolti a braccia aperte, anche perché il 50%
partiva come clandestino, senza lavoro. Sfidando leggi e
pregiudizi e assediando frontiere nell'irriducibile speranza
di garantirsi una vita migliore.
In fuga dalla povertà (e dai Savoia.
Gli
italiani che partono per l'America, provengono soprattutto
dalle regioni del sud, impoverite dall'unità d'Italia.
Le politiche repressive dell'esercito dei Savoia coi
massacri di "briganti" (che spesso briganti non sono) e la
mancanza di una riforma agraria spingono centinaia di
migliaia di contadini a lasciare la propria terra. Perché
proprio in America? Dagli Usa, reduci dalla guerra di
secessione, c'è richiesta di manodopera per sostituire
gli schiavi ormai liberi. E poi c'è anche una ragione
pratica ed economica: il viaggio in nave verso le Americhe,
che dura circa 12 giorni, costa meno del biglietto del treno
per il nord dell'Europa.
Vittime del razzismo
Il fatto che gli italiani si trovino a rimpiazzare gli
afro-americani e lavorare a stretto contatto con loro, li
rende socialmente indesiderabili agli occhi dei bianchi. Gli
atti di razzismo non si contano: e se sospettati di un
crimine gli italiani, come i neri, vengono linciati
pubblicamente e senza processo.
Andata e ritorno
Gli italiani arrivano negli Usa a botte di 1.000 al giorno
(nel solo 1906 si calcola ne sbarchino 358 mila). In
maggioranza sono uomini e non tutti vogliono restare, ma
mettere da parte qualche soldo per tornare a casa e comprare
un pezzo di terra (cosa che farà quasi la metà di loro).
La
prima grande comunità italiana a New York si forma ad
Harlem, dove gli "italians" vanno a vivere in edifici
fatiscenti di 5/6 piani, coi servizi in comune, in strade
che rispettano la regione di provenienza. I siciliani coi
siciliani, i calabresi coi calabresi e così via.
Le immigrate
Anche le donne lavorano, spesso come operaie della
manifattura. Le condizioni non sono delle migliori, come
rivelerà tristemente la tragedia della
Triangle,
una fabbrica tessile di New York dove il 25 marzo 1911
scoppia un incendio: gli operai e le operaie, soprattutto
italiani, sono stati chiusi a chiave per evitare che si
assentino e non possono fuggire. Muoiono 123 donne e 23
uomini.
Sovversivi
Le pessime condizioni di vita e di lavoro degli emigranti e l'arrivo negli Stati
Uniti di anarchici e sovversivi in esilio, porta all'aumento dei disordini
sociali.
Il 16 settembre 1920 scoppia una bomba a Wall Street, che produce una spaventosa
esplosione, 39 morti e 200 feriti. È il più sanguinoso attentato mai avvenuto a
New York, prima dell'11 settembre 2001. Si pensa che a commetterlo sia stato
l'italiano Mario Buda, che intanto è fuggito. Lui, considerato l'inventore
dell'autobomba, negherà ogni addebito fino alla morte, nel 1963.
Sindacalisti
Gli emigranti italiani sono quelli che maggiormente
avvertono l'esigenza di un sindacato: tra i leader della
protesta operaia si fa strada il giornalista e drammaturgo
Carlo Tresca, anarchico, arrivato negli Usa nel 1904 per
sfuggire a una condanna politica. Tresca si oppone con
tenacia al fascismo, al comunismo e anche alla mafia, ma per
le sue idee socialiste non piace alla polizia americana. E
ha un nemico giurato: il potente uomo d'affari
italo-americano Generoso Pope, filofascista e in contatto
col boss Frank Costello.
Tresca viene ucciso nel 1943 mentre cammina sulla Fifth
Avenue da un sicario che avrebbe agito su ordine del padrino
Vito Genovese. Ai suoi funerali partecipano circa 5000
persone.
Leggende nere e innocenti veri
Oltre ai "sovversivi", a contribuire alla pessima fama degli
italiani negli anni di inizio novecento è anche la Mano
Nera, la mafia degli italo-americani.
È in
questo clima di ostilità e pregiudizio verso gli italiani
che vengono arrestati gli anarchici Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti, accusati di rapina e omicidio. I due
vengono condannati a morte nel 1927, nonostante l'assenza di
prove e la confessione di un detenuto portoricano li
scagioni. A poco servono il sostegno di intellettuali come
Albert Einstein, Dorothy Parker e George Bernard Shaw e
l'intervento ufficiale del governo di Benito Mussolini:
nulla può salvarli.
La
riabilitazione avverrà solo 50 anni più tardi, nel 1977, per
opera del Governatore del Massachusetts, Michael Dukakis.
Luci e ombre dell'l'integrazione
Come fare a integrare gli
italiani nella società newyorkese? Un gruppo di missionarie
con a capo la suora protestante Anna Ruddy si offre di
portare l'America nei quartieri dove gli italiani vivono
segregati: nasce la
Harlem House,
un centro sociale, dove le missionarie forniscono assistenza
sanitaria a bambini e adulti e impartiscono loro lezioni di
inglese e di educazione civica.
Inizia così la fase di "assimilazione" degli italiani. I
primi tempi non sono facili. Ai bambini viene vietato
parlare l'italiano a scuola. Anche le usanze italiane
vengono bandite: le assistenti sociali arrivano a
consigliare alle donne di smettere di usare l'olio di oliva
a favore del burro. Un brutto colpo per la cucina italiana.
Che si prenderà la sua rivincita più volte. L'ultima nel
2013 quando l'emporio Eataly risulterà il terzo luogo più
visitato di New York, in base agli scontrini emessi, dopo
l'Empire State Building e il Metropolitan Museum.
I politici italo-americani
Nel 1916 il Congresso degli Stati Uniti elegge il primo
deputato italo-americano: è Fiorello La Guardia, figlio di
un musicista di Cerignola. Nel 1933 diventa sindaco di New
York, guadagnandosi la fama di amministratore onesto e
competente: lavora nel solco del New Deal del Presidente
Roosevelt per mettere fine alla grande Depressione,
costruendo scuole, parchi e case popolari. Combatte la mafia
ed è tra i primi uomini politici americani a schierarsi
contro fascismo e nazismo.
Morirà nel 1947, in tempo per vedersi dedicato il secondo
aeroporto di New York di cui, secondo un sondaggio, è stato
il sindaco più amato di sempre.
Politici, mafiosi e poliziotti
Se è vero che nella New York italo-americana si sono fatti
strada molti mafiosi, è anche vero che dalla stessa comunità
nascono anche figure di spicco come Vito Marcantonio,
deputato molto attivo nella lotta per i diritti civili e per
i diritti dei lavoratori, dei poveri e di tutti gli esclusi;
Rudolph Giuliani, prima procuratore federale e poi sindaco
della città, molto attivo nella lotta alla criminalità; il
poliziotto Frank Serpico, figlio di emigranti di Marigliano
(Napoli) che diventerà famoso negli anni 70 per la denuncia
dei casi di corruzione della polizia newyorkese; e Mario
Cuomo, il governatore "liberal" dello stato di New York,
scomparso il 1 gennaio 2015, molto attivo contro la pena di
morte.
Da wop a Guido
Gli italiani in America vengono apostrofati in molti modi:
durante la grande immigrazione il nomignolo più in voga è "wop",
acronimo di "without official papers" (senza documenti
ufficiali), che ad alcuni ricorda la parola "guappo". Nel
1978 la popolare trasmissione Saturday Night Live rende
celebre lo sketch di padre Guido Sarducci, un prete che
fuma, indossa occhiali scuri e parla di gossip: e diventa di
moda il soprannome Guido (ma secondo alcuni era già
diffuso).
Nel
2009 verrà rilanciato dal reality show Jersey Shore, che
mette in scena la vita di 8 giovani italo-americani, i
guidos e le guidettes. Non senza polemiche da parte della
comunità italo-americana, che non si riconosce nel loro
stile di vita urlato e trash.
Da poverissimi a benestanti
Ma, nomignoli a parte, gli italo-americani nel corso del tempo hanno avuto modo
di rifarsi: secondo il censimento del 2000, in media guadagnano 61.300 dollari
all'anno, 11 mila in più della media nazionale (50 mila dollari) e hanno un'
istruzione superiore alla media, che gli consente di ottenere lavori migliori.
Il 29% ha un diploma, il 7% la laurea e il 2% insegna nelle università o svolge
professioni di prestigio.
Vantano origini italiane rockstar, attori, registi e scrittori famosi. E nel
2013 New York elegge il suo quarto sindaco italo-americano: Bill De Blasio, i
cui nonni materni erano arrivati in America a fine '800 rispettivamente da
Benevento e Matera.
E veniamo ai giorni nostri.
Non trovate delle affinita’ con la situazione
che che stiamo vivendo oggi in Italia ?
Da dove arrivano uomini, donne e bambini che
cercano protezione in Italia? E perché scappano, dalla
guerra ? o da che altro ?
Come è ormai noto, il numero dei richiedenti
asilo nel 2018 in Italia è in calo. Nei primi sei mesi
dell’anno 33.770 uomini, donne e minori provenienti da
Africa, Asia ed Europa (quattro continenti se si aggiungono
anche i pochi sudamericani) hanno chiesto protezione
internazionale nel nostro Paese.
Un trend in discesa già iniziato nel 2017 e
che con tutta evidenza proseguirà nei prossimi mesi.
Nonostante questo calo, in Italia lo scontro
politico è sempre molto alto e la propaganda sul tema
continua a essere molto forte.
Proviamo a fare chiarezza proviamo a
restituire una fotografia diversa dei principali Paesi di
provenienza dei richiedenti asilo in Italia, e cerchiamo di
capire meglio la situazione in quei Paesi.
A differenza di quello che spesso si sente o
si legge, non si fugge dal proprio Paese solamente a causa
di una guerra. A volte la soglia di democrazia è bassissima,
altre volte non c’è libertà di stampa o la soglia di povertà
(non solo economica) rende impossibile la stessa
sussistenza.
Le motivazioni che spingono, e che hanno
spinto, centinaia di migliaia di persone a viaggi
difficilissimi e pericolosi sono complesse, e non solo la
fuga da un conflitto.
Non bisogna dimenticare, come al contrario
spesso accade, che il diritto all’asilo è un diritto
soggettivo e non collettivo che va riconosciuto ad ogni
singolo individuo sulla base della situazione personale e
non a un contesto ampio, nazionale.
Si fa presto a parlare di “migranti
economici”. Prendiamo per esempio
il
Multidimensional Poverty Index
(realizzato dal Development Programme delle Nazioni Unite).
Questa classifica prende in considerazione solo parte dei
Paesi del pianeta (un centinaio), quelli in cui la “povertà
acuta” è più diffusa.
E mette in ordine secondo una povertà che non
è solo economica, ma comprende anche beni e servizi che
contribuiscono a costituire una vita “non povera”.
ll MPI quindi tiene
conto anche della mancanza di un sistema scolastico e
sanitario dignitoso, l’impiego o la sicurezza personale.
Come
scrivono
i curatori dell’Index: «Nessun indicatore da solo, come per
esempio il reddito, è in grado di cogliere i molteplici
aspetti che contribuiscono alla povertà».
Molto spesso i Paesi più poveri, e dai quali
si fugge o si vorrebbe fuggire, sono anche quelli in fondo
alle graduatorie sulla democrazia o dove i diritti civili
non sono tutelati. Poveri economicamente, ma anche poveri di
democrazia e di libertà.
Un esempio in questo senso è il Gambia, Paese
di provenienza del giovane richiedente asilo
morto suicida
perché aveva visto respinta la domanda di protezione. Il
Gambia è un paese che nel 2016 ha avuto libere elezioni dopo
20 anni di presidenza Jammeh e di grandi restrizioni su
diritti politici e civili. Ora,
scrive
Freedom House, «le libertà fondamentali, compresi
i diritti di riunione, di associazione e di parola, sono
migliorate, ma lo stato di diritto non è consolidato. Le
persone subiscono gravi discriminazioni e la violenza contro
le donne rimane un problema serio».
Ecco, malgrado non ci sia una guerra, il
Gambia è un Paese da cui – almeno per alcuni – è legittimo
fuggire o no?
Nel 2016 piu’ di 5.000 persone
sono morte in mare, affogate.
Nel 2017 2.500.
Nel 2017 piu’ di 15.000
persone sono rinchiuse nei campi di detenzione libici.
Nel 2017 piu’ di 100.000 profughi sono
sbarcati in Italia (130.000 nel 2016, ma poco piu’ di 30.000
nel 2018).
Incredibilmente 13.000 sono minori non
accompagnati.
Il martellante incitamento all’odio
razziale,al
l’omofobia,al l’odio contro le donne, contro i diversamente
abili, tutto di matrice prettamente salviniana.
Gli umani sono creature sociali che sono
facilmente influenzate dalla rabbia e dal furore che sono
ovunque in questi giorni. Quali conseguenze hanno i discorsi
incendiari dei politici in questo contesto?
Gli umani sono creature sociali che sono facilmente
influenzate dalla rabbia e dal furore che sono ovunque in
questi giorni. Quali conseguenze hanno i discorsi incendiari
dei politici in questo contesto?
Il seguente
articolo è stato pubblicato
originariamente qui da The New
York Times.
La neuroscienza dei discorsi di odio
di Richard A. Friedman – opinionista
del NYT e professore di psichiatria clinica e direttore
della clinica di psicofarmacologia del Weill Cornell Medical
College
Le parole dei politici, in particolare quelle del Presidente
degli Stati Uniti, sono importanti?
Da quando è in
carica, il Presidente Trump ha continuamente demonizzato
i suoi avversari politici definendoli
malvagi e li ha sminuiti chiamandoli stupidi. Ha chiamato
gli immigrati senza documenti “animali”. La sua retorica ha
contribuito in modo determinante al nostro clima d’odio,
amplificato dai media di destra e dalla virulenta cultura
online.
Certo, è
difficile dimostrare che i discorsi incendiari siano una
causa diretta di atti violenti.
Ma gli umani sono creature sociali – compresi, e forse
soprattutto, gli svitati e i disadattati tra noi – che sono
facilmente influenzate dalla rabbia che è ovunque in questi
giorni. Questo potrebbe spiegare perché solo nelle ultime
due settimane abbiamo visto l’orribile massacro di undici
ebrei in una sinagoga di Pittsburgh, con l’uomo arrestato
descritto come un rabbioso antisemita, così come l’invio di
pacchi bomba ai critici più influenti di questa
Amministrazione da parte di un esaltato sostenitore di
Trump.
Non devi essere uno psichiatra per capire che l’odio e la
paura diffusi tra i sostenitori di Trump possono spingere
qualche sbandato all’azione.
Ad ogni modo, la psicologia e la neuroscienza
possono darci alcuni spunti importanti per riflettere sul
potere che hanno le parole pronunciate dalle persone
potenti. Sappiamo che l’esposizione ripetuta a discorsi di
incitamento all’odio può aumentare i pregiudizi, come
confermato da una
serie di studi condotti lo scorso anno in
Polonia, e desensibilizzare gli individui verso le
aggressioni verbali, anche perché normalizza quello che di
solito sarebbe considerato un comportamento socialmente
condannabile.
Allo stesso tempo, politici
come Trump che alimentano la rabbia e la paura nei loro
sostenitori, provocano un aumento degli ormoni dello stress,
come il cortisolo e la norepinefrina, e colpiscono
l’amigdala, una ghiandola del cervello che gestisce emozioni
come quelle della paura. Uno
studio, ad esempio, incentrato su “l’elaborazione
del pericolo” ha dimostrato che il linguaggio minaccioso può
attivare direttamente l’amigdala. Ciò rende difficile per le
persone gestire le proprie emozioni e pensare prima di
agire.
Trump è riuscito a convincere i suoi sostenitori che è
l’America ad essere la vittima e che affrontiamo una
minaccia esistenziale da pericoli immaginari come la
carovana migrante e le “schifose
fake, fake news”.
Due personaggi in particolare hanno dimostrato di aver
ascoltato le parole del Presidente Trump. Robert Bowers,
autore della sparatoria che ha ucciso 11 persone nella
sinagoga di Pittsburgh, ha accusato gli ebrei di aver
aiutato a trasportare alcuni membri della carovana migrante
centroamericana. Sembra che pensasse che il Presidente non
stava facendo abbastanza per proteggere gli Stati Uniti
dagli invasori. “Non posso stare seduto a guardare mentre la
mia gente viene massacrata”, ha scritto online prima della
furia omicida. E Cesar Sayoc Jr., accusato di aver spedito
bombe alla CNN, ha fatto eco al Presidente in un tweet:
“Altre bugie lavoro inganno Propaganda ciao fallite fallite
spazzatura della CNN.”
Chiunque di noi, sottoposto a continue e mirate
sollecitazioni, potrebbe essere spinto alla violenza dalla
retorica dell’odio.
Susan Fiske,
psicologa di Princeton, ha
dimostrato insieme ad alcuni colleghi che la
sfiducia nei confronti di un gruppo esterno è legata alla
rabbia e ad impulsi che tendono alla violenza. Ciò è
particolarmente vero quando
una società affronta difficoltà economiche e le persone sono
portate a vedere gli estranei come concorrenti per il loro
lavoro.
Mina Cikara, psicologa ad Harvard, sostiene che “quando un
gruppo viene messo sulla difensiva e si sente minacciato,
inizia a credere che tutto, compresa la violenza, sia
giustificato”.
Un’altra cosa che
fa Trump e che facilita la violenza contro coloro che non
ama, è disumanizzarli.
“Queste non sono persone”, ha detto una volta a proposito di
immigrati irregolari sospettati di legami con bande
criminali. “Questi sono animali.”
La ricerca della
dottoressa Cikara, e di molti altri, mostra che quando
un gruppo si sente minacciato, è molto più facile
pensare alle persone dell’altro gruppo come meno umane,
e avere poca empatia per loro – due condizioni psicologiche
che favoriscono la violenza.
Secondo una
ricerca del dott. Fiske del 2011, membri
di gruppi che sono stati disumanizzati possono arrivare a
suscitare disgusto nelle persone.
Il dott. Fiske ha inoltre scritto:
“Sia la scienza che la storia suggeriscono che le
persone agiscono sui loro pregiudizi nel peggiore dei modi quando
vengono messe sotto stress, condizionate dalla società, o quando
ricevono l’approvazione dalle autorità per farlo“.
Quindi, quando qualcuno come il presidente Trump disumanizza
i suoi avversari, rischia di privarli di empatia e quindi
della protezione morale, rendendo più facile fargli del
male.
Se avete ancora qualche dubbio sul potere del discorso
politico di fomentare la violenza fisica, considerate il
classico esperimento dello psicologo di Yale, Stanley
Milgram, che nei primi anni ’60 aveva studiato la volontà di
un gruppo di uomini di
obbedire a una figura autoritaria.
Ai soggetti era stato detto di somministrare scariche
elettriche a un altro partecipante, senza essere a
conoscenza del fatto che le scariche fossero finte. Il 65%
dei soggetti ha fatto quello che gli era stato ordinato
applicando la scarica massima, che se fosse stata reale
avrebbe potuto essere fatale.
Questo andava a dimostrare come possiamo
essere facilmente influenzati dall’autorità per fare del
male terribile agli altri, anche semplicemente ricevendo un
ordine.
Ora immaginate cosa succederebbe se il presidente Trump
lanciasse veramente una chiamata alle armi ai suoi
sostenitori. Paura? Dovreste averne.
Traduzione e rielaborazione testo a cura di Sabika Shah
Povia
P.S. Nell’articolo sostituite alla parola
“Trump” la parola “Salvini”.
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