Scontri a Genova, la deriva di un Paese dove informare è un rischio.
Mi trovavo in piazza Corvetto, all'angolo con via Serra, l'unica via
di uscita di una piazza completamente blindata dai mezzi della
polizia e dagli agenti in tenuta antissommossa. Era una buona
posizione, per osservare i contatti tra a polizia e i manifestanti,
c'erano già state cariche, ma mi sentivo tranquillo, proprio perchè
alle spalle avevo la via di fuga. E poco prima la polizia era anche
arretrata.
Poi non so cosa sia
scattato, non ricordo l'innesco della follia. Mi hanno detto poi che
i poliziotti hanno visto un ragazzo vestito di nero e hanno lanciato
la carica. So che mi sono arrivati addosso, intorno a me non c'era
quasi nessuno, ero in un punto defilato.
Li ho visti arrivare,
avevo il cellulare in mano perchè stavo facendo qualche foto, mi
sono uteriormente spostato. Ma mi sono arrivati addosso. Ho
cominciato a scappare, ma non ne ho avuto il tempo.Allora
ho cominciato a gridare, ancora prima che mi buttassero a terra,
prima che iniziasse l'incubo. Ho gridato con tutta la mia voce:
"Sono un giornalista, sono un giornalista".
Mi hanno fatto cadere e
hanno cominciato a picchiare: calci, manganellate, colpi da tutte le
parti, non sapevo come pararli, non potevo pararli. E urlavo,
urlavo, tiravo fuori la testa dalla posizione fetale che avevo
assunto: "Sono un giornalista, sono un giornalista". Non si
fermavano. Ero come un pallone, preso a calci.
Sentivo che stavano
scaricando su di me una rabbia indescrivibile, avevano un furore
irrefrenabile, ero terrorizzato. Allora ho urlato ancora più forte
"Basta, basta". Non si fermavano. Non so quanto sia durato. Mi sono
coperto la testa con le mani nude. A un certo punto mi sono accorto
che il mio corpo non resisteva più, che non riuscivo neppure più a
proteggermi. Lì ho avuto paura di morire.
A un certo punto è
arrivato un poliziotto, Giampiero Bove, che conosco da molto tempo:
si è buttato sul mio corpo, con il casco: "Fermatevi, fermatevi,
cosa state facendo, è un giornalista, fermatevi", ha gridato. Mi ha
salvato. Gli sarò per sempre grato. E, come automi, gli agenti hanno
smesso e se ne sono andati. Come se il loro furore fosse stato
spento, con un clic.
Mi ha aiutato ad
appoggiarmi a un muretto, stavo male, ha chiamato i soccorsi. Poi è
arrivata l'ambulanza, durante il tragitto, mi veniva da vomitare,
credo per lo shock. Ora sono ricoverato all'ospedale Galliera di
Genova: i medici mi hanno detto che sulla schiena ho le impronte
delle suole Vibram degli anfibi degli agenti, i segni del manganello
sui fianchi. Ho una costola fratturata, due dita della mano sinistra
rotte, trauma cranico per le manganellate in testa ed ecchimosi su
tutto il corpo. E non ho mai pensato che potesse succedermi una cosa
del genere.