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Ha vinto il pre-fascismo. Salvini e Meloni (34,26+6,45) superano da
soli, la percentuale che con l’attuale legge elettorale per le
politiche garantisce con altissima probabilità la maggioranza
assoluta. Del resto, possono imbarcare anche ciò che si decomporrà
di Forza Italia, con Berlusconi totem inoffensivo. Avranno i numeri
per cambiare la Costituzione (repubblicana antifascista) che
detestano. Potranno dilagare nella Corte Costituzionale e nel Csm,
asservendo la magistratura.
Il pre-fascismo non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non
diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi,
razzismo, sciovinismo, clericalismo, rapporto diretto viscerale
acritico subordinato Capo/popolo (Capo, in latino Dux, in tedesco
Führer), disprezzo per le minoranze, medioevo per i diritti civili,
subalternità delle donne, odio per gli intellettuali … La cecità di
editorialisti e politologi si ostina a non vedere il repentaglio.
Salvini con il voto di domenica è il mazziere del gioco, il padrone
che dà le carte. Può decidere se andare subito alle elezioni o se
gli convenga ancora l’alleanza con un M5S tappetino, su cui
scaricare magari lo scontento per l’inevitabile finanziaria.
Era tutto scritto. Lo avevamo scritto, del resto, perché non era
necessario essere Nostradamus. Il 6 marzo 2018, a risultati appena
noti, scrivevamo che un governo con Salvini “per il Movimento 5
stelle sarebbe investire la vittoria in titoli tossici e preparare
l’harakiri. Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la
coerenza con cui vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri
espiatori, spurghi emotivi del cittadino malpensante, anche
razzista, ma con rosario e crocefisso”. E il 23 aprile insistevamo
che “se fosse andato in porto il governo Di Maio/Salvini, con
quest’ultimo ministro dell’Interno e caccia ai migranti, sarebbe
stata la coerenza lepenista del secondo a tenere banco e imprinting
del governo presso gli elettori”.
L’11 maggio, su “La Stampa” definivo “abbastanza abominevole” il
nascente governo (“abbastanza” era ironico), e il 1 giugno
radicalizzavo il giudizio esaminando uno per uno i ministri leghisti
(e più d’uno dei 5S). Il 1 gennaio 2019, nel “Buon Anno” ai lettori
scrivevo: “Il 2019 sarà peggiore. Al governo Salvini succederà il
governo Salvini 2. Per elezioni anticipate o per transumanze
parlamentari. Immediatamente prima o immediatamente dopo le elezioni
europee. Un governo senza il M5S, con le frantumaglie delle destre
berlusconiane e meloniane. Oppure, perfino peggio, ancora con il
M5S, ridotto da partner subalterno, qual è oggi, a puro zerbino,
alibi dove pulirsi gli stivali del prefascismo”.
Perché ciò che era lapalissiano non lo si è voluto vedere? Perché ci
si è resi ciechi di fronte al fatto che decenni di spaventosa
crescita delle diseguaglianze, di sfrenato liberismo, dove
“arricchitevi!” e “guai ai vinti!” sono due facce della stessa
politica, avrebbe potuto avere due soli sbocchi: una politica di
radicale redistribuzione in direzione egualitaria, attraverso
tassazione superprogressiva e politiche di welfare spinto, oppure
una politica dei capri espiatori, dei penultimi messi in conflitto
con gli ultimi e risarciti con il privilegio di cartapesta delle
identità vicarie (“prima gli italiani”, “migranti a casa loro”,
“spara a casa tua”).
Le sinistre hanno smesso di essere i partiti dell’eguaglianza, fino
a dimenticare la parola stessa e trovarla fastidiosa e financo
sudicia. Del resto erano ormai ceto politico, “Casta” o “minicaste”
autoreferenziali, strutturalmente parte del privilegio.
Il M5S ha presunto che si potesse essere “oltre” rispetto a destra e
sinistra. Vero, se con questi termini si intendevano le forze
politiche organizzate, tragicamente falso se riferito ai valori
culturali e agli interessi materiali. Perciò è finito in un magma
(un blog!) indistinto, fino all’indifferenza e alla collusione con
l’ostilità propria della Lega, sui valori di fondo: laicità, diritti
civili, eguaglianza delle donne, amore per la scienza e la cultura …
Perciò il suo prevedibile e previsto harakiri (e mettiamoci
l’assurdità della selezione dei loro dirigenti, per reality anziché
per lotte e capacità, su cui abbiamo scritto ennesime volte).
Immaginare che un argine (parlare di alternativa è oltre il
ridicolo) all’attuale dominio pre-fascista possa venire dal Pd di
Zingaretti è l’ultima, e forse più pericolosa, illusione. In secondo
luogo, rispetto a un anno fa, il Pd ha perso 111.545 voti. L’aumento
in percentuale è solo perché meno elettori in generale si sono
recati alle urne. In primo luogo, il Pd è alla radice dei problemi
che hanno portato all’attuale catastrofe: il Pci aveva gravissimi
difetti e tare, da Togliatti a Berlinguer, ma la metamorfosi
Pci>Pds>Ds>Pd, per cui una forza di sinistra è diventata una forza
della destra perbenista e benpensante (chiamiamoli col loro nome,
basta parlare per il Pd di sinistra) è la causa prima e cruciale di
quanto avvenuto negli ultimi trent’anni.
L’argine, la resistenza, l’alternativa, potranno perciò venire solo
dalla nascita di una forza coerentemente “giustizia e libertà”. Che
rispetto alle “sinistre” degli ultimi decenni, però, anche
“estreme”, sia libera da ogni tentazione del multiculturalismo e del
politically correct (comprese alcune versioni di ideologie
femministe reazionarie), che sia antipartitocratica e contro gli
attuali establishment, che sia per la scienza. Egualitaria,
illuminista, laicissima.
Come possa nascere non è prevedibile, che esista in forma dispersa
nel paese è probabilissimo. Ma dispersa, appunto, elettoralmente
invisibile perché quasi tutta rifugiata nel non voto. A farla
nascere potrà essere solo un catalizzatore oggi imponderabile, ma il
brodo di coltura in cui si produca il big bang dobbiamo lavorare ad
incrementarlo e arricchirlo ogni giorno, ciascuno nella sfera
d’azione che riuscirà a crearsi. Qualche ipotesi in una riflessione
successiva.
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